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A un tratto ci furono imprecazioni e grida: una sezione del tetto, nel punto da dove poco prima penzolavo, si era incavata. Evidentemente la scarica di fléchettes aveva indebolito la struttura e ora il peso dei soldati la faceva cedere. Udii i soldati ritirarsi in fretta, imprecando e cercando altre vie per arrivare al bordo.

L’indugio mi concesse otto o dieci secondi in più, ma mi bastarono per arrivare al termine del tubo, per dondolare una volta, due, e mollare la presa alla terza. Caddi pesantemente sulla piattaforma, rotolai e andai a sbattere contro la ringhiera, con tanta violenza da restare senza fiato.

Ma non potevo fermarmi a riprendere fiato. Mi mossi in fretta e rotolai verso la parte più buia del ponte, sotto il modulo. Almeno due fucili a fléchettes fecero fuoco: una scarica andò a vuoto e fece ribollire l’acqua quindici metri più in basso, l’altra colpì l’estremità del ponte, col rumore di cento sparachiodi in funzione nello stesso istante. Mi tirai in piedi e mi misi a correre, scansando basse travi e cercando di scorgere qualcosa in quel labirinto d’ombre. Da qualche parte, sopra di me, risuonarono dei passi. I soldati avevano il vantaggio di conoscere la disposizione dei ponti e delle scale, ma solo io sapevo dov’ero diretto.

Ero diretto al ponte più basso dell’estremità est, dove avevo lasciato il tappeto; ma il ponte di servizio sul quale mi trovavo portava a una lunga passerella che correva a nord e a sud. Passai sotto la piattaforma principale finché non ritenni d’essere in pari col ponte est; allora montai a cavalcioni di una trave di sostegno larga circa sei centimetri e, agitando a destra e a sinistra le mani ammanettate per tenermi in equilibrio, attraversai una sezione scoperta, fino al successivo pilone verticale. Ripetei la manovra, deviando a nord e a sud quando la trave terminava, ma trovandone sempre un’altra che andava a est.

Botole si spalancavano e passi rimbombavano sulle passerelle sotto il ponte principale, ma raggiunsi per primo il ponte est. Vi saltai sopra, trovai il tappeto ancora legato al puntone, lo srotolai, toccai i fili di volo, presi quota e mi ritrovai a passare sopra la ringhiera proprio mentre una botola si apriva sulla lunga rampa di scalini che portava giù al ponte. Mi ero disteso bocconi sul tappeto nel tentativo di presentare la minore sagoma possibile contro le lune o le acque illuminate e per via delle manette manovravo con impaccio i fili di volo.

L’istinto mi diceva di volare dritto a nord, ma sarebbe stato un errore. I fucili a fléchettes erano precisi solo fino a sessanta o settanta metri, ma lassù qualcuno aveva di sicuro un fucile al plasma o l’equivalente. Ora tutti concentravano l’attenzione sull’estremità est della piattaforma. Per me era meglio puntare a ovest o a sud.

Virai a sinistra, planai sotto le travi di sostegno e mi tenni a breve distanza dalle onde, dkigendomi a ovest e sfruttando come protezione il bordo della piattaforma. Da quella parte solo un ponte sporgeva sul mare (quello su cui mi ero lasciato cadere) e vedevo che sull’estremità nord non c’era nessuno. Anzi, notai, il ponte era ridotto a brandelli per le scariche di fléchettes e probabilmente sarebbe crollato, se qualcuno ci avesse messo piede. Volai sotto quel ponte e continuai verso ovest. Stivali rimbombarono sulle passerelle superiori, ma chi mi avesse visto, avrebbe avuto il suo daffare a prendermi di mira a causa delle decine di piloni e di travi incrociate.

Mi lanciai fuori della piattaforma, tenendomi nella sua ombra (le lune adesso erano più alte) e a qualche millimetro dall’acqua, nel tentativo di frapporre la lunga onda oceanica tra me e l’estremità ovest della stazione. Mi ero allontanato di una sessantina di metri e mi preparavo a emettere un sospiro di sollievo, quando udii lo sciaguattio e i colpi di tosse, a qualche metro alla mia destra, al di là della cresta dell’onda seguente.

Capii subito che cos’era… chi era! Il tenente che avevo scaraventato dalla ringhiera. Il mio primo impulso fu di tirare dritto. Alle mie spalle c’era una grande confusione… grida, spari dal lato nord, altre grida all’estremità est, da dove ero fuggito… ma pareva che ancora nessuno m’avesse scorto. Quell’uomo m’aveva rifilato un colpo in testa e m’avrebbe allegramente ucciso, se non ci fossero stati di mezzo i suoi compagni. Il fatto che la corrente l’avesse trascinato lì, lontano dalla piattaforma, si poteva imputare alla sua sfortuna. Cosa potevo farci io, se lui era sfortunato?

"Posso calarlo sulla base della piattaforma" mi dissi. "Oppure su una delle travi di sostegno. Da lì sono già andato via una volta, posso ripetermi. Faceva il suo lavoro. Non merita di morire per questo."

Mi sembra giusto dire che in simili momenti odiavo la mia coscienza… anche se di simili momenti non è che me ne capitassero tanti.

Fermai a pelo d’acqua il tappeto hawking. Ero ancora disteso bocconi, testa e spalle ingobbite perché i soldati urlanti sulla piattaforma non mi scorgessero. Ora mi sporsi sulla destra per localizzare la fonte dello sciaguattio e dei colpi di tosse.

Vidi per prima cosa i pesci. Avevano la pinna dorsale come gli squali della Vecchia Terra o come i famelici dorso-a-sciabola del mar Meridionale di Hyperion… con una differenza: due lucenti pinne al posto di una. Nella luce delle lune vedevo chiaramente i pesci: dalla coppia di pinne dorsali al ventre scintillavano di una decina di vividi colori diversi. Lunghi circa tre metri, si muovevano come predatori, con possenti spinte della coda, e mostravano denti bianchissimi.

Seguii sopra l’onda uno di quegli assassini, dirigendomi verso i colpi di tosse, e vidi il tenente. Si dimenava fra gli spruzzi nel tentativo di tenere la testa fuor d’acqua e intanto si rigirava per tenere a bada gli squali multicolori. Appena una creatura s’avventava su di lui nell’acqua viola, il tenente scalciava nel tentativo di colpire con lo stivale la testa o le pinne. Il pesce azzannava a vuoto e si allontanava. Altri serravano il cerchio. Il tenente della Pax era chiaramente esausto.

— Maledizione — mormorai. Non potevo lasciarlo lì.

Per prima cosa annullai il campo deflettore… un mini-campo di contenimento progettato per fungere da parabrezza ad alta velocità e per non perdere i passeggeri (in particolare i bambini) a qualsiasi velocità. Se tiravo a bordo quel poveraccio zuppo d’acqua, non volevo lottare anche contro il campo. Poi mossi il tappeto lungo l’onda e lo fermai nel punto esatto dove avevo visto il tenente.

Il tenente non c’era più. Era scivolato sotto. Pensai di tuffarmi, poi scorsi le braccia che si dimenavano sotto il pelo dell’acqua. Gli squali stringevano il cerchio, ma per il momento non attaccavano. Forse erano sconcertati dall’ombra del tappeto.

Protesi nell’acqua le mani ammanettate, afferrai per il polso destro il tenente e lo tirai su. Per il peso rischiai di cadere dal tappeto, ma mi sporsi all’indietro, ritrovai l’equilibrio e tirai fuori il tenente quanto bastava per afferrarlo per il fondo dei calzoni e trascinarlo, gocciolante e sputacchiante, sul tappeto.

Il tenente era cereo e freddo, tremava tutto; subito vomitò acqua e poi parve respirare regolarmente. Ne fui contento: non ero sicuro che la mia generosità sarebbe giunta fino a praticargli la respirazione a bocca a bocca. Controllai che fosse disteso a una certa distanza dal bordo del tappeto (non volevo che uno squalo saltasse su ad azzannargli una gamba) e riportai l’attenzione sui comandi. Stabilii la rotta per tornare alla piattaforma e feci sollevare un poco il tappeto. Frugai nel giubbotto, trovai la ricetrasmittente e impostai il codice per far esplodere il plastico piazzato sui ponti degli skimmer e dei tòtteri. Mi sarei avvicinato alla piattaforma da sud, perché così potevo controllare che su quei ponti non ci fossero persone: allora, con una semplice pressione sul pulsante, avrei trasmesso il codice che avrebbe azionato i detonatori; nella confusione avrei fatto il giro e mi sarei riaccostato da ovest per lasciar cadere il tenente sul primo luogo asciutto che avessi trovato là sotto.