Non ero tanto immerso nelle meditazioni teologiche e filosofiche da ritenermi pronto a morire. Mi girai di scatto, senza sapere se ero stato azzannato gravemente, ma ben deciso a sparare in bocca alla maledetta creatura, se occorreva. Avevo già armato e puntato la pesante rivoltella, prima di vedere il viso della bambina, lì a mezzo metro dal mio. Aenea aveva i capelli incollati alla testa e i suoi occhi brillavano nel chiaro di luna.
— Raul!
Di sicuro m’aveva chiamato anche prima, ma non avevo udito niente, tra il rumore dello sparo e il ronzio nelle orecchie.
Battei le palpebre per togliermi dagli occhi le goccioline d’acqua. Era un’allucinazione, pensai. Cristo, perché mai Aenea avrebbe dovuto abbandonare la zattera?
— Raul! — gridò di nuovo Aenea. — Stai a galla sul dorso. Usa la pistola per tenere lontano quelle creature. Ti tirerò su.
Scossi la testa. Non capivo. Perché aveva lasciato sulla zattera il robusto androide ed era venuta a cercarmi? Come avrebbe potuto…
Il cranio dalla pelle azzurra di A. Bettik comparve sulla cresta dell’onda seguente. L’androide nuotava con forza e stringeva fra i denti il lungo machete. Risi fra le lacrime: pareva un pirata di un olodramma di quarta serie.
— Stai a galla sul dorso! — gridò di nuovo Aenea.
Mi girai sul dorso, troppo stanco per scalciare lo squalo che si tuffava verso le mie gambe. Gli sparai, mirando fra i piedi, e lo centrai in mezzo agli occhi, neri e freddi. La doppia pinna scomparve nell’onda.
Aenea mi circondò il collo, con la sinistra mi afferrò sotto il braccio destro in modo da non soffocarmi e cominciò a nuotare con forza verso la cresta dell’onda successiva. A. Bettik nuotava accanto a noi, usando un braccio solo perché impugnava il machete. Vidi che menava un fendente nell’acqua e guardava due pinne gemelle contrarsi e deviare sulla destra.
— Cosa… — cominciai, soffocando e tossendo.
— Risparmia il fiato — ansimò Aenea, tirandomi nel successivo ventre d’onda. — Abbiamo molta strada da fare.
— La rivoltella — dissi, cercando di passargliela. Sentivo le tenebre chiudersi su di me come un tunnel sempre più stretto e non volevo perdere l’arma. Troppo tardi: la sentii cadere in mare. — Scusa — riuscii a dire, prima che il tunnel si chiudesse del tutto.
Il mio ultimo pensiero coerente fu un inventario di ciò che avevo perduto nella mia prima missione da solo: il prezioso tappeto hawking, gli occhiali col visore notturno, l’antica rivoltella, gli stivali, forse la ricetrasmittente e molto probabilmente la vita, mia e dei miei amici. Le tenebre interruppero quella cinica riflessione.
Mi accorsi confusamente d’essere tirato a bordo della zattera. Non avevo più le manette. Aenea mi soffiava in bocca e mi comprimeva il torace per farmi vomitare l’acqua che avevo nei polmoni. A. Bettik, in ginocchio accanto a noi, tirava con forza una grossa fune.
Vomitai acqua per alcuni minuti. Alla fine dissi: — La zattera… come?… ormai doveva essere al portale… non…
Aenea mi costrinse a restare disteso con la testa contro uno zaino e con un coltello mi tagliò la camicia a brandelli e la gamba destra dei calzoni. — A. Bettik ha usato la microtenda e le corde da scalata per costruire una sorta d’ancora galleggiante — disse. — Ci ha rallentato, ma senza farci uscire di rotta. Ci ha dato il tempo per cercarti.
— Come…
— Zitto — disse Aenea, togliendomi l’ultimo pezzo di camicia. — Voglio rendermi conto della gravità delle ferite.
Sobbalzai quando mi toccò lo squarcio al fianco. Poi Aenea tastò la profonda ferita sul dorso del braccio, mi sfiorò la coscia e il polpaccio scorticati dalla pelle degli squali. — Ah, Raul — disse, rattristata. — Ti ho perso di vista per un paio d’ore e guarda come ti sei ridotto!
Sentivo la debolezza riprendere sopravvento, sprofondavo di nuovo nelle tenebre. Avevo perduto troppo sangue. Avevo molto freddo. — Mi spiace — mormorai.
— Zitto. — Con un forte rumore di plastica lacerata aprì il medipac più grosso. — Non dire niente.
— No — insistetti. — Ho fatto fiasco. Dovevo proteggerti… tenerti al sicuro. Scusami… — Emisi un gemito, mentre lei iniettava direttamente nella ferita al fianco una soluzione sulfamidica antisettica. Sul campo di battaglia avevo visto uomini piangere per questo. Adesso ero uno di loro.
Se Aenea avesse usato il mio moderno medipac, sono sicuro che sarei morto nel giro di qualche minuto, se non di qualche secondo. Invece aveva usato quello più grosso, l’antico medipac in dotazione alla FORCE trovato sulla nave. Il mio primo pensiero fu che medicinali e attrezzature sarebbero stati inutili dopo tutto quel tempo, ma poi vidi le spie luminose palpitare sulla parte superiore del medipac posato sul mio petto. Alcune erano verdi, altre, più numerose, erano gialle e altre, in numero inferiore, erano rosse. Non andava affatto bene.
— Resta disteso — mormorò Aenea. Aprì una confezione di suture sterili. Mi posò sul fianco il sacchetto chiaro: il millepiedi suturante che vi era contenuto prese vita e strisciò sulla ferita. La sensazione non era piacevole, mentre quella forma vivente creata a bella posta strisciava tra le labbra frastagliate della ferita, emetteva secrezioni antibiotiche e disinfettanti, ritirava le acuminate zampette e le serrava per la suturazione. Gridai di nuovo… e ancora, un attimo dopo, quando Aenea mi applicò un millepiedi anche al braccio.
— Ci servono altre cartucce di plasma sanguigno — disse Aenea all’androide. Infilò due cilindretti nel sistema iniettore del medipac. Sentii il bruciore alla coscia, mentre il plasma entrava in circolo.
— Abbiamo solo queste quattro — disse A. Bettik. Ora si affaccendava su di me, mi poneva sul viso la maschera osmotica. L’ossigeno cominciò a fluirmi nei polmoni.
— Maledizione — disse Aenea, inserendo l’ultima cartuccia. — Ha perso troppo sangue. Sta per avere un collasso.
Avrei voluto ribattere, spiegare che i tremiti e i brividi erano dovuti solo all’aria gelida, che mi sentivo molto meglio; ma la maschera osmotica mi premeva la bocca, gli occhi, il naso, non mi consentiva di parlare. Per un istante ebbi l’allucinazione di trovarmi di nuovo nella nave e d’essere bloccato dal campo di contenimento antiurto. Sono sicuro che in quel momento l’acqua salata sul mio viso non proveniva tutta dal mare.
Poi vidi in mano a Aenea l’iniettore d’ultramorfina e mi agitai. Non volevo perdere i sensi: se dovevo morire, volevo morire da sveglio.
Aenea mi sospinse di nuovo contro lo zaino. Capì che cosa cercavo di dire. — Ti voglio svenuto, Raul — mormorò. — Stai per avere un collasso. Dobbiamo stabilizzare le tue funzioni vitali… sarà più facile, se sarai incosciente. — L’iniettore sibilò.
Mi agitai ancora per qualche secondo. Ora piangevo di frustrazione. Dopo tutta quella fatica non volevo scivolare nell’incoscienza… Cristo, non era giusto… non era giusto…
Mi svegliai sotto la vivida luce del sole, in un caldo terribile. Per un momento fui sicuro di trovarmi ancora sulle onde di Mare Infinitum; ma quando radunai energie sufficienti a sollevare la testa, vidi che il sole era diverso… più largo, più caldo… e che il cielo aveva una tonalità d’azzurro molto più chiara. La zattera pareva muoversi lungo una sorta di canale di cemento largo non più d’un paio di metri. Vedevo cemento, sole, cielo azzurro… e nient’altro.
— Stai disteso — disse Aenea, spingendomi testa e spalle contro lo zaino e modificando il microtessuto della tenda in modo che il mio viso fosse di nuovo all’ombra. L’"ancora galleggiante" era stata recuperata, è ovvio.
Cercai di parlare, non ci riuscii, mi umettai le labbra secche che parevano incollate e alla fine riuscii a dire: — Per quanto tempo sono rimasto svenuto?