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Aenea aumentò la stretta sulla mia mano. — Sì — disse. — Mi sarebbe piaciuto conoscere l’anziano studioso e sua figlia.

— Sono andati… avanti… nella Sfinge — riuscii a dire. — Come… te.

Aenea si chinò su di me, con l’acqua della borraccia m’inumidì le labbra e annuì. — Sì. Ma ricordo le storie di Mamma, su Hebron e sui kibbutz locali.

— Ebrei — mormorai e smisi di parlare. Sciupavo troppa energia che mi occorreva per combattere il dolore.

— Fuggirono dal Secondo Olocausto — disse Aenea, guardando ora avanti, mentre il veicolo girava l’angolo. — Chiamavano Diaspora la loro Egira.

Chiusi gli occhi. Il tenente volò in brandelli, abiti e carne ridotti a lunghe stelle filanti che scendevano lentamente a spirale sul mare violaceo…

All’improvviso mi accorsi che A. Bettik mi sollevava. Entravamo in un edificio più grande e più snello degli altri, tutto plastacciaio e vetro temperato. — Il centro medico — disse l’androide. La porta automatica si aprì con un sibilo davanti a noi. — La corrente c’è. Ora, se solo le attrezzature mediche sono intatte…

Evidentemente mi appisolai per qualche secondo, perché quando riaprii gli occhi, terrorizzato dalle pinne dorsali che mi accerchiavano sempre più da vicino, mi ritrovai sopra un ripiano a rotelle che qualcuno faceva scivolare nel cilindro di un robochirurgo diagnostico.

— Ci vediamo più tardi — diceva in quel momento Aenea. Mi lasciò la mano. — Ci vediamo dall’altra parte.

Restammo su Hebron per tredici giorni locali, ciascuno pari a circa ventinove ore standard. Per i primi tre giorni il robochirurgo si sfogò su di me: non meno di otto operazioni invasive e una buona decina di trattamenti terapeutici, almeno secondo la tabella digitale.

Era proprio con una forma di vita microrganica che quel miserabile oceano di Mare Infinitum aveva deciso di uccidermi, anche se, quando vidi la risonanza magnetica e le scansioni bioradar, mi resi conto che alla fin fine quell’organismo non era poi tanto microscopico. Qualsiasi cosa fosse (la robodiagnosi era incerta) aveva attecchito lungo l’interno della costola scorticata ed era cresciuto come i funghi delle felci fino a diramarsi negli organi interni. Se avesse tardato ancora di un giorno standard l’intervento, riferì più tardi il robochirurgo, avrebbe trovato solo licheni e materia decomposta.

Dopo avermi aperto e ripulito, dopo avere ripetuto altre due volte il procedimento perché tracce infinitesimali dell’organismo oceanico avevano iniziato a riprodursi, il robochirurgo dichiarò che il fungo era ormai debellato e si mise a lavorare sulle ferite che presentavano una minaccia meno immediata per la mia vita. Per lo squarcio al fianco sarei di sicuro morto dissanguato… soprattutto a causa degli sforzi nel calciare e dell’alto ritmo delle pulsazioni provocato dai miei amici con le pinne dorsali. Le cartucce di plasma del vecchio medipac e alcuni giorni di stato comatoso per le abbondanti dosi d’ultramorfina mi avevano mantenuto in vita fin quando il chirurgo non aveva potuto iniettarmi altre otto unità di plasma sanguigno.

La profonda ferita al braccio non aveva reciso tendini, come avevo temuto, ma muscoli e nervi, tanto che il robochirurgo vi aveva lavorato durante la seconda e la terza operazione per liberarmi dal fungo. Poiché al nostro arrivo nell’ospedale l’energia elettrica non mancava, il chirurgo al silicio aveva preso l’iniziativa di far crescere nel serbatoio d’organi situato nelle cantine i nervi di ricambio occorrenti. L’ottavo giorno, mentre Aenea sedeva al mio capezzale e mi raccontava come il robochirurgo avesse continuato a chiedere consiglio e autorizzazione ai soprastanti umani, riuscii perfino a ridere quando lei disse che il "dottor Bettik" aveva autorizzato ogni operazione critica, trapianto e terapia.

La gamba che il variopinto squalo aveva cercato di tranciarmi con un morso si rivelò la parte più dolorosa della cura. Eliminato il fungo dalla zona lacerata dai denti dello squalo, mi vennero trapiantati, strato dopo strato, tessuti muscolari e pelle. Faceva un male d’inferno. Passato il dolore, sopravvenne il prurito. Nella seconda settimana di confino nell’ospedale, entrai in crisi per la mancanza di ultramorfina e presi in serio esame la possibilità di puntare la rivoltella su Aenea o sull’androide e pretendere la droga, anche se in realtà non credevo che l’una o l’altro avrebbero ceduto alla minaccia e mi avrebbero dato sollievo dalla crisi d’astinenza e dall’infernale prurito. Comunque non avevo più la rivoltella, finita nel violaceo mare senza fondo.

L’ottavo giorno, quando potei mettermi a sedere nel letto e mangiare davvero (semplice cibo d’ospedale, replicato in vasca) parlai con Aenea del mio breve lavoro come Eroe. — L’ultima notte su Hyperion mi ubriacai con il vecchio poeta e gli promisi che in questo viaggio avrei fatto certe cose — dissi.

— Quali? — domandò Aenea, tuffando il cucchiaio nel mio piatto di gelatina verdastra.

— Oh, niente d’eccezionale — risposi. — Proteggerti, riportarti a casa, trovare la Vecchia Terra e rimetterla al suo posto in modo che lui potesse rivederla prima di morire…

Aenea interruppe l’assaggio della gelatina. Inarcò le sopracciglia. — Ti ha detto di riportare al suo posto la Vecchia Terra? Interessante.

— Non è tutto. Strada facendo, avrei dovuto parlare con gli Ouster, distruggere la Pax, detronizzare la Chiesa e… ripeto le sue esatte parole… scoprire che cazzo trama il TecnoNucleo e impedire che lo realizzi.

Aenea posò il cucchiaio e col mio tovagliolo si pulì le labbra. — È tutto?

— Non proprio — dissi, lasciandomi ricadere sui guanciali. — Voleva pure che impedissi allo Shrike di nuocere a te e di distruggere la razza umana.

Aenea annuì. — È tutto?

Con la sinistra, la mano buona, mi strofinai la fronte sudata. — Mi pare. Comunque, è tutto ciò che ricordo. Ero ubriaco, te l’ho detto. — La guardai. — Come me la cavo, con l’elenco?

Aenea fece quel suo caratteristico gesto. — Non male. Tieni presente che abbiamo iniziato solo da qualche mese standard… meno di tre mesi, a conti fatti.

— Già — replicai, guardando dalla finestra i bassi raggi di sole che colpivano l’alto edificio di adobe di fronte all’ospedale. Al di là della città, vedevo le alture rocciose ardere di rosso per la luce della sera. — Già — ripetei, con voce prosciugata d’ogni energia e divertimento — me la cavo alla grande. — Sospirai e spinsi più in là il vassoio con la cena. — Non capisco una cosa: anche se c’era una gran confusione, come mai il loro radar non ha rilevato la zattera, quando eravamo vicinissimi?

— A. Bettik l’ha fracassato con un colpo — spiegò Aenea, riprendendo a mangiare la gelatina verdastra.

— Cosa?

— A. Bettik l’ha fracassato. Il riflettore parabolico. Con la tua carabina al plasma. — Terminò il pastone verdastro e pulì il cucchiaio. In quell’ultima settimana era stata infermiera, dottoressa, cuoca e lavapiatti.

— Mi pareva che non potesse sparare alle persone.

— Non può, infatti — disse Aenea, togliendo dal letto il vassoio e posandolo sul cassettone. — Gliel’ho domandato. Ha risposto che nessuno gli proibiva di sparare a tutti i riflettori parabolici che voleva. Così ha sparato. Poi abbiamo stabilito la tua posizione e ci siamo tuffati per salvarti.

— Era un tiro di tre o quattro chilometri, da una zattera in balia delle onde. Quante pulsoscariche ha sparato?

— Una — rispose Aenea. Guardava i diagrammi sul monitor sopra la mia testa.

Mandai un fischio sommesso. — Spero che non si arrabbi mai con me. Anche da distante.

— Se non diventi un riflettore parabolico, non hai di che preoccuparti — disse Aenea, rimboccandomi le lenzuola.

— Adesso dov’è?

Aenea si accostò alla finestra e indicò l’est. — Ha trovato un VEM con piena carica e controlla i kibbutz dalle parti del Grande Mare Salato.

— Gli altri erano deserti?

— Tutti. Gli abitanti non hanno lasciato nemmeno un cane, un gatto, un cavallo o uno scoiattolo domestico.