«Non ancora, ma lo farò in primavera, quando potrò costruirmi una casa.»
«Non puoi partire adesso che c’è tanto lavoro alla fattoria» protestò Eragon. «Aspetta fino alla semina.»
«No» disse Roran, con una leggera risata. «La primavera è il momento in cui c’è più bisogno di me. Bisogna arare e seminare. Togliere le erbacce. Per non parlare di tutto il resto. No, questo è il momento migliore per andarmene, quando non abbiamo altro da fare che aspettare la bella stagione. Tu e Garrow potrete fare a meno di me. Se tutto va bene, tornerò presto a lavorare alla fattoria, con una moglie.»
Eragon fu costretto ad ammettere che Roran aveva ragione. Scosse il capo, senza sapere se per lo stupore o la rabbia. «Immagino di non poter far altro che augurarti buona fortuna. Ma Garrow se ne avrà a male.»
«Vedremo.»
Ripresero a camminare, divisi da una barriera di silenzio. Eragon aveva il cuore in tumulto. Gli ci sarebbe voluto del tempo per abituarsi all’idea. Quando arrivarono a casa. Roran non parlò a Garrow dei suoi progetti, ma Eragon era sicuro che lo avrebbe fatto molto presto.
Eragon andò a trovare il drago per la prima volta da quando la creatura gli aveva parlato. Si avvicinò con apprensione: ormai sapeva quanto erano simili, loro due.
Eragon.
«È tutto quello che sai dire?» ribattè, aspro.
Sì.
Il ragazzo spalancò gli occhi per quell’inattesa risposta, e si sedette imbronciato. Ha anche un certo spirito. E cos’altro? In un moto di rabbia, spezzò un rametto secco con un piede. L’annuncio di Roran lo aveva messo di cattivo umore. Il drago gli comunicò un pensiero interrogativo, e lui gli raccontò che cosa era successo. Via via che parlava, la sua voce aumentava di volume, finché non si ritrovò a gridare al vento. Il monologo durò finché le sue emozioni non si placarono; alla fine picchiò il pugnò sul terreno.
«Non voglio che se ne vada, ecco tutto» disse. Il drago lo guardava impassibile, ascoltando e imparando. Eragon borbottò un paio di invettive e si strofinò gli occhi. Guardò pensieroso il drago.
«Ti serve un nome. Oggi ne ho sentiti alcuni, sembravano interessanti; magari ne trovi uno che ti piace.» Con la mente scorse la lista che Brom gli aveva elencato finché non scelse due nomi che trovava particolarmente eroici, nobili e dal suono gradevole. «Che te ne pare di Vanilor o del suo successore, Eridor? Furono entrambi draghi famosi.»
No, disse il drago. Sembrava divertito dai suoi sforzi.
Eragon.
«Quello è il mio nome, non puoi averlo» disse il ragazzo, strofinandosi il mento. «Be’, se questi non ti piacciono, ce ne sono degli altri.» Continuò con la lista, ma il drago rifiutava ogni proposta. Sembrava ridere di qualcosa che Eragon non capiva, ma il ragazzo lo ignorò e continuò a suggerire nomi. «C’era Ingothold, che uccise...» Lo folgorò un’illuminazione. Ecco qual è il problema! Ho scelto nomi maschili! Tu sei una lei!
Sì. La dragonessa si lisciò le ali, compiaciuta.
Adesso che sapeva che cosa cercare, Eragon suggerì una mezza dozzina di nomi. Provò con Miremel, ma non andava bene: era il nome di un drago bruno. Anche Opheila e Lenora vennero scartati. Era sul punto di arrendersi quando gli venne in mente l’ultimo nome che Brom aveva mormorato. A lui piaceva, ma alla dragonessa?
Domandò: «Saphira?» Lei ricambiò il suo sguardo con occhi intelligenti. In fondo alla mente, Eragon avvertì la sua approvazione.
Sì. Qualcosa scattò nella sua testa, e la voce di lei riecheggiò come da una grande distanza. Il ragazzo sorrise in risposta. Saphira cominciò a borbottare.
8
Il futuro mugnaio
Il sole era tramontato quando la cena arrivò in tavola.
Fuori ululava un vento impetuoso, che scuoteva la casa. Eragon gettava continue occhiate a Roran, in attesa dell’inevitabile. Alla fine il cugino disse: «Mi è stato offerto un lavoro al mulino di Therinsford... e credo che accetterò.»
Garrow finì di masticare il boccone con deliberata lentezza e posò la forchetta. Si appoggiò allo schienale della sedia, s’intrecciò le dita dietro la testa e pronunciò un’unica parola: «Perché?»
Roran glielo spiegò, mentre Eragon piluccava distrattamente il cibo.
«Capisco» fu il commento asciutto di Garrow. Rimase in silenzio a fissare il soffitto. Nessuno si mosse, in attesa del suo verdetto. «Dunque, quando hai intenzione di partire?»
«Cosa?» esclamò Roran.
Garrow si protese sul tavolo con uno scintillio negli òcchi. «Pensavi che ti avrei fermato? Ho sempre sperato che ti sposassi presto. Così la famiglia riprenderà a crescere. Katrina sarà fortunata, ad avere al suo fianco un uomo come te.» Lo stupore iniziale di Roran lasciò il posto a un gran sorriso di sollievo. «Allora, quando pensi di partire?» ripetè Garrow.
Roran ritrovò la voce. «Quando torna quel Dempton a ritirare i giunti per il mulino.»
Garrow annuì. «Ossia fra...»
«Un paio di settimane.»
«Bene. Avremo tempo per prepararci. Sarà diverso, avere la casa solo per noi. Ma se va tutto come deve andare, non sarà per molto.» Guardò Eragon dall’altro lato del tavolo e chiese: «Tu lo sapevi?»
Eragon si strinse nelle spalle con aria afflitta. «Non fino a oggi... È una pazzia.»
Garrow si passò una mano sul volto. «È il corso naturale della vita.» Si alzò. «Andrà tutto bene; il tempo aggiusta ogni cosa. Ma per il momento, datemi una mano a sparecchiare.» Eragon e Roran lo aiutarono in silenzio.
I giorni che seguirono furono tesi. Eragon aveva i nervi a fior di pelle. Tranne che per rispondere in fretta alle domande dirette, non parlava con nessuno. Ovunque si voltasse, piccoli ma eloquenti dettagli gli annunciavano rimminente partenza di Roran: Garrow che gli preparava un pacco, oggetti che mancavano alle pareti, e uno strano senso di vuoto che si dilatava dentro la casa. Dopo una settimana si accorse che lui e Roran erano separati da un distacco sempre maggiore:, quando si parlavano, le parole uscivano a fatica e conversare era difficile.
Saphira era un balsamo per la sua delusione. Con lei parlava in libertà, esprimeva le sue emozioni più intime, e lei lo comprendeva meglio di chiunque altro. Nelle settimane prima della partenza di Roran, la dragonessa attraversò un’altra fase di crescita repentina. Le sue spalle superarono quelle di Eragon, e il ragazzo scoprì che l’avvallamento vuoto fra le punte del dorso gli offriva un comodo spazio dove sedersi. Spesso la sera le saliva in groppa e le grattava il collo, spiegandole il significato delle parole. Ben presto la creatura arrivò a capire tutto quello che lui diceva, e spesso lo commentava, anche.
Per Eragon, questa parte della vita era meravigliosa. Saphira era vera e complessa come un essere umano. La sua personalità era eclettica, a volte molto remota, eppure si comprendevano a vicenda a un livello molto profondo. Le azioni e i pensieri della dragonessa rivelavano di continuo nuovi aspetti del suo carattere. Una volta catturò un’aquila e invece di mangiarla la liberò, dicendo:
Nessun predatore dei cieli dovrebbe finire i propri giorni da preda. Meglio morire in volo che inchiodati al suolo.
L’idea di Eragon di mostrare Saphira alla famiglia si scontrò con l’annuncio di Roran e le parole caute della stessa Saphira. La dragonessa era riluttante a mostrarsi e lui, in parte per egoismo, accettò. Nel momento in cui fosse stata resa nota, la sua esistenza, ne sarebbero scaturiti timori e accuse contro di lui: perciò rimandava. Si disse che avrebbe aspettato un segno, il segnale che i tempi erano maturi. La notte prima della partenza di Roran, Eragon andò a parlargli. Si fece avanti lungo il corridoio verso la porta aperta della sua stanza. Sul cassettone era accesa una lampada a olio, che irradiava sulle pareti la sua calda luce tremula. Le colonnine del letto gettavano lunghe ombre sulle mensole vuote, che arrivavano fino al soffitto. Roran, il volto in ombra, stava arrotolando delle coperte intorno alle proprie cose. Si fermò, prese un oggetto dal cuscino e se lo fece rimbalzare nella mano. Eragon riconobbe una pietra lucida che proprio lui gli aveva regalato anni prima. Roran fece per infilarla nel fagotto, poi ci ripensò e la posò su uno scaffale, Eragon sentì un nodo alla gola e se ne andò in silenzio.