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Brom annuì. «Ci servono due cavalli e un equipaggiamento completo per entrambi. I cavalli devono essere veloci e resistenti; dobbiamo viaggiare parecchio.»

Haberth riflette un istante. «Non possiedo molti animali del genere, e quelli che ho costano parecchio.» Lo stallone si agitò irrequieto; l’uomo lo tranquillizzò con qualche carezza.

«Il prezzo non è importante. Voglio i migliori» disse Brom. Haberth annuì e in silenzio legò lo stallone a un palo. Andò alla parete in fondo e staccò due selle e altri attrezzi che accumulò in due pile identiche. Poi si avvicinò alle nicchie che ospitavano i cavalli e ne fece uscire due. Uno era un baio chiaro, l’altro un roano. Il baio si ribellò alla cavezza.

«È alquanto vivace, ma se hai mano ferma non dovresti avere problemi» disse Haberth, porgendo la corda del baio a Brom.

Brom lasciò che il cavallo gli annusasse la mano; l’animale si lasciò accarezzare il collo. «Lo prendiamo» disse, poi adocchiò il roano. «Questo invece... non saprei.»

«Ha buone zampe, ti assicuro.»

«Mmm... Quanto chiedi per Fiammabianca?»

Haberth guardò lo stallone con orgoglio. «Preferirei non venderlo. È il miglior cavallo che abbia mai allevato... volevo farlo riprodurre per ricavarne una razza pura.»

«Ma se decidessi di venderlo, quanto costerebbe?» insistette Brom.

Eragon provò a posare una mano sul baio come aveva fatto Brom, ma il cavallo si ritrasse. Provò allora a raggiungerlo con la mente per rassicurarlo, e si sorprese di riuscire a sfiorare la coscienza del cavallo. Il contatto non era chiaro e preciso come con Saphira, ma poteva comunicare con il baio, entro un certo limite. Gli fece capire che era un amico. Il cavallo si calmò e lo guardò con i suoi liquidi occhi scuri.

Haberth usò le dita per contare il prezzo della compravendita. «Duecento corone, non di meno» disse con un sorriso, sicuro che nessuno avrebbe sborsato una simile somma. Brom aprì il borsellino senza dire una parola e contò il denaro.

«È giusto?» disse.

Ci fu un lungo istante di silenzio, mentre Haberth spostava lo sguardo dallo stallone alle monete. Infine sospirò: «È tuo, ma te lo cedo a malincuore.»

«Lo tratterò come fosse sangue del sangue di Gildihtor, il più grande stallone delle leggende» disse Brom.

«Le tue parole mi confortano» disse Haberth, chinando il capo. Li aiutò a sellare i cavalli. Quando furono pronti a partire, disse: «Addio, E per amor di Fiammabianca, vi auguro che nessuna sventura vi colpisca.»

«Non temere; baderò a lui come avresti fatto tu» promise Brom prima di allontanarsi. «Tieni» disse, porgendo le redini di Fiammabianca a Eragon. «vai dall’altra parte di Therinsford e aspetta lì.»

«Perché?» fece Eragon; ma Brom si era già dileguato. Seccato, uscì da Therinsford con i due cavalli e si fermò vicino alla strada, in attesa. A sud c’era la sagoma nebbiosa dell’Utgard, che si ergeva come un gigantesco monolito alla fine della valle. La sua vetta bucava le nubi e scompariva, torreggiando sulle montagne più piccole che lo circondavano. Il suo aspetto cupo e minaccioso gli fece venire la pelle d’oca.

Brom tornò presto e fece cenno a Eragon di seguirlo. Camminarono finché Therinsford non fu nascosta dagli alberi. Allora Brom disse: «I Ra’zac sono passati da questa parte. A quanto pare si sono fermati a prendere dei cavalli, come abbiamo fatto noi. Sono riuscito a trovare un uomo che li ha visti. Li ha descritti tremando e ha detto che sono partiti da Therinsford al galoppo come demoni inseguiti da un santo.»

«Hanno fatto una certa impressione.»

«Direi.»

Eragon accarezzò il collo dei cavalli. «Quando eravamo nella stalla, ho toccato la mente del baio per caso. Non sapevo che fosse possibile.»

Brom aggrottò la fronte. «È insolito che uno della tua età possieda questa capacità. La maggior parte dei Cavalieri devono esercitarsi per anni prima di comunicare con qualcosa che non sia il loro drago.» Osservò Fiammabianca con aria pensosa. Poi disse: «Togli le tue cose dallo zaino e mettile nelle bisacce, poi lega lo zaino dietro la sella.» Eragon obbedì, mentre Brom saliva in groppa a Fiammabianca.

Eragon scrutò dubbioso il baio. Era tanto più piccolo di Saphira che per un momento assurdo temette che non avrebbe retto il suo peso. Con un sospiro, montò in sella. Fino a quel momento aveva cavalcato soltanto a pelo, e mai per lunghe distanze. «Alle gambe mi capiterà lo stesso di quando ho cavalcato Saphira?» domandò.

«Come vanno adesso?»

«Non male, ma ho paura che se cavalchiamo troppo le ferite si riapriranno.»

«Andremo piano» disse Brom. Diede a Eragon qualche suggerimento, poi si avviarono a un’andatura tranquilla. Ben presto il panorama cominciò a cambiare: i campi coltivati lasciarono il posto a vaste distese selvagge. Cespugli ed erbacce costeggiavano la strada, insieme a enormi rovi in cui s’impigliavano i mantelli. Dal terreno affioravano alti macigni, grigi testimoni del loro passaggio. C’era un’atmosfera ostile nell’aria, un’animosità, una sorta di impalpabile resistenza agli intrusi.

Sopra di loro, sempre più gigantesco, si stagliava l’Utgard, le pendici scoscese solcate da canyon innevati. La roccia nera della montagna assorbiva la luce come una spugna e oscurava tutta la zona attorno. Fra l’Utgard e lalinea delle montagne che formavano la parte orientale della Valle Palancar c’era un profondo crepaccio, l’unica via per uscire dalla valle. La strada portava da quella parte. . Gli zoccoli dei cavalli facevano crepitare il terreno ghiaioso. La strada si ridusse a uno stretto sentiero che aggirava la base dell’Utgard, Eragon alzò lo sguardo verso la cima e notò con sorpresa che vi si ergeva una torre con alte guglie. «Cos’è?» domandò, indicandola.

Brom non alzò lo sguardo, ma rispose con voce amara e triste insieme: «Un avamposto dei Cavalieri... è lì fin dalla loro fondazione. Fu lì che si rifugiò Vrael, e dove, con l’inganno, venne scoperto e sconfitto da Galbatorix. Quando Vrael cadde, questa regione ne restò contaminata. Edoc’sil. Inespugnabile, era il nome di questo bastione, perché la montagna è così alta e ripida che nessuno può raggiungerne la vetta se non volando. Dopo la morte di Vrael, lo chiamarono Utgard, ma ha anche un altro nome. Ristvak’baen, il Luogo del Dolore. Così lo conoscevano gli ultimi Cavalieri prima che venissero uccisi dal re.»

Eragon guardò la torre con timore e rispetto. Era una testimonianza concreta della gloria dei Cavalieri, pur corrosa com’era dall’inarrestabile corso del tempo. Pensò a quanto erano antichi i Cavalieri. Un’eredità di tradizioni ed eroismo che risaliva a tempi remoti pesava ora sulle sue spalle. Viaggiarono per lunghe ore intorno all’Utgard. Formava una solida parete alla loro destra quando entrarono nella gola che divideva la catena montuosa. Eragon si alzò sulle staffe, impaziente di vedere al di là della Valle Palancar: ma erano ancora troppo distanti. Attraversarono, un valico scosceso, che si snodava fra strapiombi e colline, seguendo il corso dell’Anora. Poi, con il sole basso alle spalle, superarono una cresta e videro oltre gli alberi.

Eragon trattenne il fiato. Da un lato e dall’altro c’erano ancora montagne, ma sotto di loro si estendeva un’enorme pianura che si fondeva con l’orizzonte lontano. La piatta distesa aveva un uniforme colore brunicdo, di erba secca. Sulle loro teste si ricorrevano le nubi, sospinte da venti impetuosi.

Capì perché Brom aveva insistito per comprare i cavalli. Avrebbero impiegato settimane, se non mesi, per coprire quella distanza a piedi. Scorse Saphira che volava, tanto in alto da poter essere scambiata per un uccello.

«Aspetteremo domani per compiere la discesa» disse Brom. «Ci vorrà gran parte della giornata, perciò ci accampiamo adesso.»

«Quanto ci vuole per attraversare questa landa?» domandò Eragon, ancora stupito.

«Da un paio di giorni a una quindicina: dipende dalla direzione che uno prende. A parte le tribù nomadi che battono questa regione, per il resto è quasi del tutto disabitata, come il Deserto di Hadarac a est. Perciò non troveremo molti villaggi. Tuttavia a sud le pianure sono meno aride e più popolate.»