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Chi altri, sennò?

Ma sei solo un gatto! osservò Eragon.

Il gatto miagolò irritato e si volse. Gli saltò sul petto e si accoccolò, fissandolo con gli occhi scintillanti. Eragon cercò di alzarsi a sedere, ma il gatto ringhiò, mostrando i denti, ti sembro come gli altri gatti?

No…

E allora che cosa ti fa pensare che lo sia? Eragon fece per dire qualcosa, ma la creatura gli conficcò le unghie nel petto. Ovviamente la tua educazione presenta gravi lacune. Per tua informazione, io sono un gatto mannaro. Non siamo rimasti in molti, ma credo che perfino un contadinotto come te dovrebbe aver sentito parlare di noi.

Non sapevo che foste veri, disse Eragon, affascinato. Un gatto mannaro! Era proprio fortunato. I gatti mannari comparivano ai margini di molte leggende, creature solitarie che in rare occasioni elargivano saggi consigli. Se le leggende erano vere, essi avevano poteri magici, vivevano più a lungo degli esseri umani, e sapevano molto più di quanto non dicessero.

Il gatto mannaro sbatté le palpebre pigramente. L’esistenza non dipende dalla conoscenza. Io non sapevo che tu esistessi finché non sei piombato in negozio a interrompere il mio sonnellino.

Ma questo non significa che tu non fossi vero prima di svegliarmi.

Eragon si smarrì nel ragionamento. Mi dispiace di averti disturbato.

Mi sarei svegliato comunque, disse il gatto. Saltò sul bancone e si leccò una zampa. Se fossi in te, non continuerei a tenere in mano quella bacchetta. Fra qualche secondo ti fulminerà di nuovo.

Eragon si affrettò a rimetterla dove l’aveva trovata. Cos’è? Un manufatto comune e insignificante, al contrario di me. A cosa serve?

Non l’hai capito da solo? Il gatto mannaro finì di pulirsi le zampe, si stiracchiò di nuovo, e con un balzo tornò nella sua cuccia sullo scaffale. Si accoccolò con le zampe sotto il petto e chiuse gli occhi, facendo le fusa.

Aspetta, disse Eragon. Come ti chiami?

Il gatto mannaro aprì uno degli occhi a mandorla. Ho molti nomi. Se vuoi sapere il mio vero nome, dovrai cercare da qualche altra parte. L’occhio si chiuse. Eragon si arrese e si volse per andarsene. Comunque, puoi chiamarmi Solembum.

Grazie, disse Eragon serio. Le fusa di Solembum si fecero più sonore.

La porta del negozio si aprì, lasciando entrare un fascio di luce. Comparve Angela, con una sacca di tela piena di piante. I suoi occhi fissarono Solembum per qualche istante e la sua espressione parve sconcertata. «Dice che vi siete parlati.»

«Anche tu puoi parlargli?» chiese Eragon.

La donna fece un gesto d’impazienza. «Naturale: solo che questo non sempre vuol dire che mi risponda.» Posò le piante sul bancone, poi lo aggirò e fronteggiò Eragon. «Gli sei simpatico. Ed è un fatto insolito. Solembum di solito non si fa nemmeno vedere dai clienti. Sai, dice che da qui a qualche anno ti dimostrerai una promessa.»

«Grazie.»

«È un gran complimento, detto da lui. Sei soltanto la terza persona che è entrata qui con cui ha parlato. La prima fu una donna, tanti anni fa; il secondo un mendicante cieco; e adesso tu. Ma non tengo un negozio solo per chiacchierare. Desideri qualcosa? O sei venuto solo a dare un’occhiata?»

«Solo per un’occhiata» disse Eragon, pensando ancora al gatto marinaro. «Non credo che mi servano le erbe.»

«Non è l’unica cosa di cui mi occupo» disse Angela con un sorriso. «Gli stupidi riccastri mi pagano per avere pozioni d’amore e cose del genere. Non ho mai detto che funzionano, ma per qualche ragione quelli tornano sempre. Però non.credo che tu voglia quelle porcherie. Vuoi che ti predica il futuro? Faccio anche questo, per le stupide riccastre.»

Eragon scoppiò a ridere. «No, temo che il mio futuro sia imprevedibile. E non ho soldi.»

Angela scoccò una strana occhiata a Solembum. «Credo...» Indicò la sfera di cristallo sul banco.

«Questa è solo uno specchietto per le allodole, in realtà non serve a niente. Ma ho... Aspetta qui, torno subito.» E scomparve nel retrobottega.

Tornò trafelata con un sacchetto di pelle che posò sul banco. «Non le uso da tanto di quel tempo che mi ero quasi dimenticata dove le avevo messe. Adesso siediti qui davanti e ti mostrerò perché mi prendo tanto disturbo.» Eragon spostò uno sgabello e si sedette. Gli occhi di Solembum rosseggiavano dal buio spazio fra i cassetti.

Angela aprì il sacchetto e ne rovesciò il contenuto su di un pezzo di stoffa che aveva spiegato sul banco. Erano piccole ossa, poco più grandi di un dito, con incisi simboli e rune. «Queste» disse lei, sfiorandole con delicatezza. «sono ossa dì zampa di drago. Non chiedermi dove le ho prese, perché tanto non te lo dico. Al contrario delle foglie di té, delle sfere di cristallo, o anche dei tarocchi, possiedono un vero potere. Non mentono mai, anche se capire ciò che dicono è complicato. Se lo desideri, le lancerò per leggerti il futuro. Sappi però che conoscere il proprio destino può essere una cosa terribile. Devi essere sicuro della tua decisione.»

Eragon guardò le ossa con un brivido di terrore. Questi sono i resti di ciò che un tempo era un simile di Saphira. Conoscere il proprio destino... Come faccio a prendere una decisione quando non so che cosa mi aspetta e se mi piacerà? L’ignoranza è una vera benedizione. «Perché me lo hai proposto?» chiese.

«Per via di Solembum. Può essere stato scortese, ma il fatto che ti abbia parlato ti rende speciale. Lui è un gatto marinaro, in fin dei conti. Proposi la stessa cosa anche agli altri due che parlarono con lui, ma soltanto la donna accettò. Si chiamava Selena. Ah, ma quanto se ne pentì. Il suo destino era triste e doloroso. Non credo che ci abbia creduto... non subito, almeno.»

Eragon si sentì travolgere da un’intensa emozione e gli vennero le lacrime agli occhi. «Selena» mormorò fra sé. Il nome di sua madre, Era lei? Il suo destino era così orribile da indurla ad abbandonarmi? «Ti ricordi qualcosa della predizione?» domandò con un vuoto allo stomaco. . Angela scosse il capo e sospirò. «È passato tanto di quel tempo che i dettagli si sono dissolti nella mia memoria, che non è più buona come una volta. D’altro canto, non ti direi mai quello che ricordo. La mia predizione era per lei e lei soltanto, Era triste, però; non scorderò mai la sua espressione.»

Eragon chiuse gli occhi per arginare il flusso di emozioni. «Perché ti lamenti della tua memoria?» domandò, per distrarsi. «Non sei tanto vecchia.»

Sulle guance di Angela comparvero due fossette. «Sono lusingata, ma non farti ingannare; sono molto più vecchia di quanto non sembri. L’aspetto giovanile lo devo alle erbe che mangio nei tempi di magra.»

Eragon sorrise e trasse un lungo respiro. Se era mia madre ed è riuscita a sopportare il fardello della conoscenza del proprio destino, farò altrettanto. «Lancia le ossa per me» disse, in tono solenne.

Il volto di Angela divenne serio, mentre raccoglieva le ossa in tutte e due le mani. Chiuse gli occhi e le sue labbra si mossero in un mormorio silente. Poi esclamò a gran voce: «Manin! Wyrda! Hugin!» e gettò le ossa sul panno. Caddero l’una sull’altra, scintillando nella debole luce.

Le parole risuonavano nelle orecchie di Eragon; aveva riconosciuto l’antica lingua e si rese conto con apprensione che per usarle a scopi magici. Angela doveva essere una maga. Non aveva mentito; era una vera indovina. I minuti passarono lentamente mentre la donna leggeva le ossa.

Infine. Angela si ritrasse ed emise un lungo sospiro. Si asciugò la fronte e prese un otre di vino sotto il bancone. «Ne vuoi un po’?» gli chiese. Eragon fece di no con la testa. Lei si strinse nelle spalle e bevve un lungo sorso. «Questa» disse, pulendosi la bocca col dorso della mano «è la lettura più difficile che mi sia mai capitata. Avevi ragione. Il tuo futuro è impossibile da prevedere. Non ho mai conosciuto nessuno con un destino così intricato e oscuro. Tuttavia, forse qualcosa ti posso dire.»