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Almeno fammi scoprire che cosa ha da dire, ragionò lui, incuriosito, ma in guardia. «Chi è il tuo padrone?» domandò.

L’Urgali rise beffardo. «Uno di bassa lega come te non è degno di conoscere il suo nome. Egli domina il cielo e la terra. Per lui tu non sei altro che un’insulsa formica. Tuttavia ha deciso che devi essere portato al suo cospetto vivo. Ritieniti onorato di aver ricevuto una tale notizia!»

«Non verrò mai con voi o con un altro dei miei nemici!» dichiarò Eragon, ripensando a Yazuac.

«Che serviate uno Spettro, un altro Urgali o qualche mostro deforme di cui non ho mai sentito parlare, non ho alcuna intenzione di parlare con lui.»

«Grave errore» ringhiò l’Urgali, mostrando i denti. «Non c’è modo di sfuggirgli. Alla fine ti troverai comunque davanti al nostro padrone. Se resisti, colmerà i tuoi giorni di dolore.»

Eragon si chiese chi avesse il potere di portare gli Urgali sotto tin’unica bandiera. C’era forse una terza potenza sconosciuta nel territorio, oltre all’Impero e ai Varden? «Tieniti pure la tua offerta e di’ al tuo padrone che mi auguro che i corvi si mangino presto le sue viscere!»

Un brontolio di rabbia si diffuse fra gli Urgali; il loro capo ululò, digrignando i denti. «Allora ti trascineremo da lui con la forza!» A un suo cenno, gli Urgali si avventarono su Saphira. Eragon levò la mano destra e gridò: «Jierda!»

No! esclamò Saphira, troppo tardi, però.

I mostri esitarono vedendo il palmo di Eragon rifulgere. Lampi di luce guizzarono dalla sua mano e colpirono ciascuno dei mostri al ventre. Gli Urgali vennero scagliati in aria e scaraventati contro gli alberi; poi ricaddero inerti al suolo.

Improvvisamente prosciugato di ogni energia, Eragon scivolò dal dorso di Saphira. Si sentiva la mente annebbiata. Quando Saphira si chinò su di lui, si rese conto che forse si era spinto troppo oltre. L’energia necessaria a respingere dodici Urgali era enorme. Fu invaso dal panico, mentre lottava per restare sveglio.

Ai margini del suo campo visivo scorse uno degli Urgali rimettersi in piedi a fatica, la spada in pugno. Eragon cercò di avvertire Saphira, ma era troppo debole. No... pensò debolmente. L’Urgali strisciò alle spalle di Saphira finché non superò la sua coda, pronto ad affondarle la spada nel collo.

No!... Saphira si volse di scatto e ruggì selvaggiamente. I suoi artigli colpirono con una rapidità straordinaria. Sangue zampillò dappertutto, mentre le due metà del corpo del mostro cadevano a terra, separate.

Saphira fece schioccare le fauci soddisfatta e tornò da Eragon. Circondò con delicatezza il suo busto con le zampe insanguinate, poi ringhiò e spiccò il volo. La notte lo avvolse in un manto nero, fatto di dolore. Il rumore ipnotico del battito d’ali di Saphira lo fece cadere in una sorta di trance: su, giù; su, giù; su, giù…

Quando Saphira finalmente atterrò, Eragon si rese conto a stento che Brom parlava con lei. Non capì che cosa dicevano, ma dovevano aver preso una decisione, perché Saphira si levò di nuovo in volo.

Dal torpore scivolò nel sonno, che lo fasciò come una morbida coperta.

30

Una visione perfetta

Eragon si mosse sotto le coperte, riluttante ad aprire gli occhi. Continuò a sonnecchiare qualche altro istante, poi lo folgorò un pensiero... Come sono arrivato qui? Confuso, si avvolse nelle coltri e sentì qualcosa di duro sul braccio destro. Provò a muovere il polso. Una fitta lancinante gli si propagò lungo il braccio. Gli Urgali! Alzò la schiena di scatto. Era in una piccola radura deserta, tranne che per un falò da campo su cui bolliva una pentola di stufato. Uno scoiattolo squittì dall’alto di un ramo. L’arco e la faretra erano adagiati di fianco alle coperte. Strinse i denti e cercò di alzarsi, con tutti i muscoli doloranti e indeboliti. Il braccio dolorante era immobilizzato da una pesante stecca.

Dove sono tutti? si chiese avvilito. Provò a chiamare Saphira, ma con suo grande allarme si accorse di non sentirla. Affamato come non mai, mangiò lo stufato in quattro e quattr’otto; non ancora sazio, cercò le bisacce, sperando, di trovarvi un pezzo di pane. Ma nella radura non c’erano né le bisacce né i cavalli. Sono sicuro che c’è un buon motivo per questo, pensò, sopprimendo un senso di crescente inquietudine.

Girellò per la radura, poi tornò al suo giaciglio e arrotolò le coperte; non aveva niente da fare, così si sedette con la schiena contro un albero a contemplare le nuvole. Le ore passarono, ma Brom e Saphira non tornavano. Spero che non sia successo niente.

Mentre il pomeriggio avanzava, Eragon cominciò ad annoiarsi e decise di esplorare la foresta. Quando si sentì stanco, si riposò sotto un abete addossato a un grosso macigno con una cavità al centro, dove si era raccolta la rugiada della notte.

Eragon guardò l’acqua limpida e pensò alle istruzioni di Brom sulla cristallomanzia. Forse posso vedere dov’è Saphira. Brom ha detto che per usare la cristallomanzia ci vuole molta energia; ma io sono più forte di lui... Inspirò a fondo e chiuse gli occhi. Evocò un’immagine mentale di Saphira, la più realistica che poteva: uno sforzo che risultò più impegnativo del previsto. Poi disse: «Draumr kópa!» e guardò l’acqua.

La sua superficie divenne completamente piatta, come ghiacciata da una forza invisibile. I riflessi scomparvero e l’acqua si fece trasparente: su di essa brillava l’immagine di Saphira. Intorno a lei non c’era che un candore assoluto, ma Eragon capì che stava volando. Brom le montava sul dorso, la barba al vento, la spada sulle ginocchia.

Eragon lasciò che l’immagine sbiadisse, sfinito. Almeno sono al sicuro. Si concesse qualche minuto per recuperare le forze, poi si sporse ancora sull’acqua. Roran, come stai? Nella mente vedeva chiaramente il cugino. D’impulso, fece ricorso alla magia e pronunciò le parole magiche.

L’acqua tornò immobile, poi l’immagine si formò sulla sua superficie. Comparve Roran, seduto su una sedia invisibile; come nel caso di Saphira, anche intorno a lui non c’era che uno spazio bianco. C’erano rughe disegnate sul volto di Roran: assomigliava a Garrow più che mai. Eragon trattenne l’immagine più a lungo che poté. È a Therinsford? Comunque si trova in un luogo che non ho mai visto.

Lo sforzo di usare la magia gli aveva imperlato la fronte di sudore. Sospirò e per un lungo istante fu lieto di resta-re seduto. Poi lo attraversò un pensiero assurdo. E se cercassi di divinare qualcosa che ho creato con la mia immaginazione oppure ho visto in sogno? Sorrise. Forse mi verrebbe mostrata la mia stessa coscienza.

Era un’idea troppo allettante per abbandonarla. Si protese ancora una volta sull’acqua. Allora, che cosa posso divinare? Prese in considerazione qualche immagine, ma le scartò tutte quando rammentò il sogno della donna nella cella. Rievocò la scena nella mente, pronunciò le parole e guardò l’acqua attentamente. Attese, ma non accadde nulla. Deluso, stava quasi per abbandonare la magia, quando un nero turbinio coprì la superficie dell’acqua. L’immagine di una candela solitària tremolò nel buio; la sua luce rivelò le pareti di pietra di una cella. La donna del sogno era rannicchiata su un pagliericcio, in un angolo. Alzò la testa; i lunghi capelli neri ricaddero indietro e i suoi occhi si posarono su Eragon. Lui s’impietrì, come ipnotizzato dalla forza di quello sguardo. Si sentì scorrere un brivido lungo la schiena. Poi la donna tremò e crollò, inerte.

L’acqua tornò limpida, Eragon si rialzò, ansante. «Non è possibile.» Quella donna non può essere vera; io, l’ho soltanto sognata! Come faceva a sapere che la stavo guardando? E come posso aver divinato una cella che non conosco? Scosse il capo, chiedendosi se altri suoi sogni erano in realtà visioni.