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Il tipo distolse lo sguardo, voltandosi dall’altra parte. «Proprio come pensavo,» disse Nina. «Allora, nel frattempo, dacci le chiavi delle stanze 10, 11 e 12.»

Monroe prese le chiavi e fece un cenno a tre poliziotti, che seguirono Nina e lui quando lasciarono l’ufficio e attraversarono il cortile. La stanza 11 era la quinta porta lungo il lato destro. Le tende erano ancora tirate. A due dei poliziotti vennero date le chiavi delle stanze 10 e 12.

Estrassero le pistole e aprirono le porte senza far rumore. Le spalancarono e scivolarono dentro.

Un minuto dopo ricomparvero entrambi. Uno scosse la testa, mentre l’altro disse: «Mi era sembrato di sentire qualcosa, come se ci fosse stato qualcuno che parlava.»

«Tre ambienti,» osservò l’altro poliziotto. «Il salotto, la camera da letto nel retro e il bagno.»

«Okay,» disse Monroe. Per una frazione di secondo Nina pensò che il suo capo avesse l’intenzione di dare la chiave rimasta a uno dei poliziotti, salvo poi rendersi conto di come la cosa sarebbe stata vista. Quel tipo di atteggiamento — in aggiunta all’abitudine di abbandonare le persone come se non contassero nulla, come aveva fatto quando era arrivata lei — era esattamente uno dei motivi per cui i poliziotti in uniforme non li amavano come fratelli. Nina estrasse la sua pistola, tenendola a due mani e lontano dal corpo. Fu attenta a non far notare a nessuno la lieve smorfia di dolore. Erano passati ormai tre mesi, ma il braccio destro le dava ancora qualche problema. Due dottori e tre fisioterapisti le avevano detto che non c’era più nulla che non andava. Nina aveva finito per convincersi che forse era la piccola cicatrice rotonda nella parte alta del petto che parlava, che le diceva di conoscere tutto ormai sulle pistole e che non voleva aver nulla a che fare con loro. Una suggestione sterile, comunque: gli agenti dell’FBI sono costretti a portare sempre con sé le loro armi. Per quel che la riguardava, lei dormiva con la sua sotto il letto.

Monroe si mise di fronte alla porta, con Nina immediatamente dietro di lui. Disse ai poliziotti di stare pronti a seguirli, ma di dar loro un po’ di tempo. Annuirono. Sembravano più risoluti di quanto non fosse lei, ma questo faceva parte dell’essere un uomo, ne era consapevole. Se uno di loro si fosse mostrato debole di fronte a un collega nessuno lo avrebbe mai più voluto a coprirgli le spalle.

Monroe infilò la chiave nella serratura. La girò. Poi aspettò un secondo e spinse. La porta si aprì su una stanza buia. Anche le tende dall’altro lato erano tirate. Faceva caldo.

«FBI,» disse Monroe con voce ferma. «Mettete giù qualsiasi tipo di arma e venite fuori con le mani in alto. Questo è l’unico avvertimento.»

Aspettarono, ma nessuno disse niente. Non apparve nessuno. Era il solito enigma: o non c’era nessuno nella stanza e tutto era ormai tranquillo e finito, oppure c’era un tizio molto cattivo intenzionato a sparare a qualche poliziotto.

Nina era in posizione. Entrò nella stanza.

Buio ostinato, aria viziata, un gran caldo, come se qualcuno avesse spento il condizionatore ventiquattr’ore prima. La stanza era quadrata e ospitava un malandato sofà, due sedie, un tavolo, un enorme televisore risalente all’età della pietra. Non c’erano effetti personali in vista. Una luce tremolante proveniva dalla porta socchiusa nell’angolo sul lato del cortile.

Si sentiva anche un suono smorzato, molto probabilmente quello di una televisione accesa.

Chi la sta guardando?

Nina si spostò lateralmente dentro la stanza per fare spazio a Monroe. Senza fare il minimo rumore, l’uomo entrò, facendo segno ai poliziotti di rimanere dov’erano. Una volta che fu arrivato sulla soglia dell’altra stanza la donna si voltò e si diresse in silenzio verso il bagno. Aprì la porta continuando a tenere la pistola vicina al corpo.

Dentro non c’era niente se non un forte odore di chiuso. Lasciò la porta aperta. Girò sul piede destro per tornare a guardare la stanza e annuì verso Monroe. I poliziotti all’entrata rimasero in silenzio e pronti ad agire. Monroe si diresse verso la porta che dava sulla seconda stanza. Nina lo seguì a un metro e mezzo di distanza. Poi si fermò.

Tutto si condensa nell’ora: Monroe spinge delicatamente la porta con la mano sinistra, e quando questa si apre rivela gran parte del muro laterale della camera da letto, una cangiante luce grigio-blu e un suono un po’ più forte che ha quel tono frusciante e acuto al di sopra del brontolio basso. È sicuramente un televisore. A volte le persone lo lasciano acceso perché tiene compagnia, e se lo dimenticano quando escono. Se ne fregano, tanto l’elettricità non la pagano loro.

Monroe fa un passo che lo porta a essere sulla soglia. Un attimo. Ne fa un altro e si volta immediatamente puntando la pistola verso una zona che Nina non può vedere.

Ma nota che la parte alta della schiena di Monroe ha una specie di sussulto, come se il piede d’appoggio si fosse ritrovato d’improvviso cinque centimetri più in basso di quanto si aspettasse.

Ancora un lungo istante. «Signora?»

Nina sente il suo stomaco contrarsi, mentre Monroe deglutisce a bocca aperta, con un colpo secco. Sta osservando, è pronto a fare fuoco. Fa ancora un mezzo passo avanti, sembra piegarsi e guardare verso l’alto. Poi si sposta di lato scomparendo dalla vista. Per un attimo c’è un silenzio assoluto, poi un leggero fruscio. Ancora silenzio.

«Nina,» disse alla fine, «entra.»

Sapeva che significava che doveva entrare solo lei, quindi alzò la mano per fare segno agli altri di rimanere in posizione. Abbassò leggermente l’altro braccio, ma non aveva ancora l’intenzione di posare la pistola.

La stanza da letto sembrava ancora più calda dell’altra e c’era un forte odore. Il televisore era in alto a sinistra, fissato al muro con un supporto metallico, ed emetteva un ronzio appena percettibile. Monroe si trovava dall’altro lato di un letto di dimensioni principesche.

Su di esso c’era una donna, lo sguardo fisso in direzione del televisore. Non aveva ancora trent’anni, capelli castani lunghi. Non si mosse quando Nina entrò, per la buona ragione che era morta. Era seduta sul letto in posizione eretta, con la testa inclinata leggermente in avanti. Indossava indumenti da notte con un motivo floreale. Lo stomaco aveva cominciato a rilassarsi. Il viso sembrava di stucco colorato. Aveva gli occhi aperti, così come la bocca, dove era stato infilato qualcosa.

«Cristo,» disse Nina.

Si chinò in avanti. L’oggetto nella bocca della donna aveva le dimensioni di un piccolo bloc-notes, spesso mezzo centimetro, largo cinque, e probabilmente lungo un po’ più di sette, anche se era difficile dirlo senza rimuoverlo. Sembrava fatto di metallo lucido, e in bella vista sull’estremità c’era una minuscola etichetta che riportava alcuni numeri e lettere.

«Che diavolo è quello?» disse Monroe. Stava respirando rumorosamente e su una delle tempie comparve una goccia di sudore.

Nina scosse la testa. «Non ne ho idea.»

Mezz’ora dopo Nina uscì. Era arrivata la prima ondata di quei depravati della scientifica. Con le tende ancora tirate e il calore che ristagnava, l’impressione era di trovarsi in un armadio stipato all’inverosimile. Nina esaminò con la massima attenzione tutto l’appartamento, il che era sempre facile una volta constatato che nessuno ti avrebbe sparato addosso, e poi se ne andò. Monroe invece rimase ancora dentro. Ci sarebbe voluto l’arrivo dei fotografi perché se ne andasse.

Nella stanza non c’erano altri corpi. Il fruscio che Nina aveva sentito era Monroe che controllava il bagno. Era privo di qualsiasi effetto personale. Non c’era nessuna traccia dei vestiti che la donna doveva aver avuto addosso quando era arrivata. Non si può andare in giro per un motel in pigiama, neppure in un posto come il Knights. Normalmente ci si porterebbe anche degli accessori per la toeletta, una borsa, oggetti che potrebbero contenere qualche elemento identificativo, per quanto casuale. La polizia stava già controllando le segnalazioni di persone scomparse, ma qualcosa diceva a Nina che non ci sarebbero state informazioni utili in tal senso a breve termine.