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Riuscii così a stabilire che si trattava effettivamente di San Francisco. Evidentemente mio fratello era in grado di dire la verità.

Fenwick Street distava dieci minuti a piedi dall’hotel. Le strade erano affollate, greggi di passeggiatori e maniaci dello shopping di fine pomeriggio proiettavano lunghe ombre sui puliti marciapiedi grigi. Anche se la strada era stata allargata e praticamente ogni elemento architettonico a livello stradale era cambiato, non ebbi nessuna difficoltà a riconoscere che mi trovavo nel posto giusto.

Quando fui dall’altro lato della strada rispetto al grande edificio che una volta aveva ospitato Harrington’s, mi fermai. Le persone sfrecciavano intorno a me come foglie che rasentano una roccia in un flusso regolare. La vecchia facciata del negozio era stata divisa in due e adesso ospitava un Gap e un grande emporio di prodotti cosmetici dal quale emergevano, con espressioni soddisfatte e sacchetti piccolissimi in ambo le mani, donne di tutte le età. I piani superiori sembravano ospitare studi di avvocati.

Mi accorsi che i miei occhi erano attratti dal marciapiede di fronte a me. Non ricordavo di aver camminato in quel punto preciso, eppure lo avevo fatto. Tenevo per mano mia madre, e mio padre ci aveva filmato. Loro non c’erano più, ma il posto era ancora qui, e io con lui. Ormai ero più vecchio di quanto fossero loro in quella circostanza, ma allora io avevo più o meno la stessa età di un marmocchio che mi passò davanti in un passeggino, una creaturina così diversa da me che trovai difficile credere che una volta anch’io ero stato così.

Il tempo è strano.

Il mattino dopo, alle 9:05 mi attaccai al telefono. Verso le 10:30 l’unico risultato che avevo raggiunto era la consapevolezza che non è facile ottenere rapidamente delle informazioni dai Servizi Sociali. A un certo punto avevo passato tanto di quel tempo a schiacciare pulsanti per accedere ai diversi menu da cominciare a temere che sarei stato messo in collegamento con me stesso, il che mi avrebbe fatto andar fuori di testa. Così uscii in strada e mi ci recai direttamente.

Non erano passati cinque minuti che già rimpiangevo di non aver continuato la mia ricerca per telefono. Non c’è niente di meglio della sala d’aspetto di un qualsiasi ufficio governativo o similari per ricordarti di quanto sei fortunato. Entri in un posto dove spazio e tempo non esistono. Stai seduto in sedie malandate colorate di tenebrosi blu e verdi che nessuno mai potrebbe annoverare tra i suoi colori preferiti. Rimani in osservazione di cartelli che non hanno nessuna rilevanza per te, comunicati generici provenienti da un mondo che ignora cosa sia la punteggiatura. Resti ad aspettare fino a che l’attesa non ti fa dimenticare lo scopo della tua visita, fino a quando non diventi come una pietra depositata qualche millennio fa da un ghiacciaio distratto. Tu sei lì, e questo è tutto ciò che tu abbia mai saputo. Nel frattempo vieni spogliato di ogni senso di individualità, dell’idea che il tuo particolare problema ti possa rendere differente da qualsiasi altra persona presente nella stanza; e così, come forma di autodifesa, finisci per identificarti con il tuo problema, lo accetti come un’identità fino a che esso si gonfia, suppura e diventa tutto ciò che tu sei. La nostra specie tollera la vicinanza, ma non quando diventa eccessiva, e non in alcune circostanze e quando ci sentiamo piccoli: allora diventiamo solo una fila di occhi aridi e irritati, odiando chiunque sia intorno a noi e augurandoci sinceramente che il nostro vicino muoia in modo da prendere il suo posto e avanzare di un passo nella fila.

Ma forse ero semplicemente io a pensarla in questo modo.

Passai molto tempo in attesa prima di poter anche solo esporre a grandi linee il mio problema a qualcuno. Poi ci volle un po’ perché superassimo il problema che non avevo un vero e proprio indirizzo e perché il funzionario accettasse i dati dell’Hotel Armada. Spiegai che avevo un fratello che probabilmente era stato dato in affidamento a San Francisco verso la metà o la fine degli anni ’60, verosimilmente intorno al 1967; che credevo che il suo nome fosse Paul, che stavo cercando di rintracciarlo e che non avevo nessun’altra informazione ad eccezione del fatto che poteva essere stato ritrovato con indosso un maglione sul quale era ricamato il suo nome. L’uomo prese appunti, ma il suo sguardo mi diceva che sarebbe stata una lunga giornata. Alla fine mi diede un numero e venni rispedito nello sputacchiante e turbinoso branco di problemi, psicosi e lamenti.

Dopo un tempo che mi parve infinito fu la volta del mio numero. Venni condotto per un lungo corridoio e fatto entrare in una stanza all’estremità più lontana del piano, dove una donna di colore di mezza età era seduta dietro una scrivania coperta di carte. Un cartello diceva trattarsi di Mrs. Muriel Dupree. Il muro alle sue spalle era tappezzato di poster nei quali una parola su tre era sottolineata e si garantiva la massima riservatezza.

«Non posso aiutarla,» disse prima ancora che mi sedessi.

Mi sedetti comunque. «E perché?»

«È passato troppo tempo, ecco perché.» Accennò a un foglio che aveva davanti. «Qui lei dice che si tratta di un fratello e che i fatti risalgano al 1967. È prima che io arrivassi, spero se ne renda conto. Era anche prima che succedessero un sacco di altre cose. Questa, per esempio.» Fece cenno verso un computer così obsoleto che non era degno nemmeno di pulire le scarpe al mio portatile. «Tutta questa roba ha cominciato a essere trasferita su computer solo una ventina di anni fa, e nel 1982 ci fu un brutto incendio che distrusse i nastri e i fascicoli nel seminterrato. Quindi, in ogni caso, abbiamo perso la maggior parte delle informazioni riguardanti il periodo precedente a quella data. Anche se su quel caso ci fosse stato qualcosa di scritto, e non fosse andato in cenere, non sarebbe stato moltissimo e lei avrebbe avuto più fortuna a trovare Dio. Intendo dire, in senso generale. Lei potrebbe averlo già trovato, nel qual caso, meglio per lei.»

La donna lesse il disappunto sul mio volto e scrollò le spalle. «Allora le cose andavano diversamente. Oggi nessuno viene ‘lasciato in adozione’: insieme alla madre si definisce un vero e proprio piano di adozione. Ci sono contatti legalmente vincolanti e tutti capiscono che una tela bianca non è la cosa migliore per un bambino, che il bambino ha bisogno della consapevolezza delle informazioni sul suo passato e cose del genere. Ma allora le cose andavano così: ‘Okay sei stato dato in affidamento, adottato o cos’altro. Benvenuto nella tua nuova vita. Non guardare indietro perché non c’è nulla di bello da vedere.’ La gente cambiava il nome dei bambini, la data di compleanno, e quant’altro. Lei sa come dicono sia nata l’espressione lasciato in adozione’?»

Scossi la testa. Non lo sapevo e non mi importava nemmeno di saperlo, ma evidentemente Mrs. Dupree mi stava vedendo come una gradita evasione di cinque minuti dalle persone che avrebbero alzato la voce con lei.

«Anni e anni fa portavano gli orfani fuori dalle città costiere, li mettevano sui treni. Li portavano in campagna e si fermavano in una di quelle microscopiche stazioni, dove i bambini venivano letteralmente ‘depositati’ sui marciapiedi nella speranza che qualche contadino con un po’ di spazio a disposizione — e che avesse bisogno di braccia da lavoro, naturalmente; si trattava pur sempre di un affare — ne prendesse uno o due con sé. ‘Ecco il ragazzino. Nutritelo e va bene così. Tutto quello che c’è stato prima è morto per sempre’. Non intendo dire che negli anni ’60 le cose stessero ancora così, ma in un certo senso era come se lo fossero. Una volta su due ai ragazzi non veniva mai detto di essere stati adottati. Nella maggior parte dei casi i genitori aspettavano fino a che non erano grandi abbastanza, il che significa che probabilmente votavano da qualche anno, e questi giovani restavano terribilmente disorientati nello scoprire che mamma e papà si trovavano in realtà a centinaia di chilometri di distanza quando loro erano nati. Non era un buon sistema e noi lo capiamo adesso, ma allora si pensava fosse la soluzione migliore, e un gran numero di questi bambini è arrivato ad avere esistenze felici e produttive. Signore, si sente bene?»