«Nina, questo è Vincent,» disse Olbrich. Nel frattempo Monroe le portò una tazza di caffè che lei accettò riconoscente.
«Mi ricordo,» disse, «sei un topo da laboratorio, no?»
Monroe si accigliò, ma il tecnico sorrise allegramente. «Sono Vince Walter, fanciullo prodigio della tecnologia.»
«Sono i miei preferiti,» disse lei sentendosi stanca. «Allora, cos’hai per noi, Vince?»
«Questo,» disse Olbrich, spingendo la busta verso di lei. «E quello che c’era dentro.»
Ripulito del sangue e non più infilato nella bocca di qualcuno, l’oggetto aveva ritrovato la sua ordinaria fisionomia di strumento tecnologico. Misurava all’incirca cinque centimetri per dodici ed era spesso poco più di mezzo centimetro. Un’estremità era coperta di connettori color oro e l’altra era piatta. La parte superiore era costituita da una placca di metallo con due adesivi che una volta erano stati bianchi, mentre ora erano macchiati irregolarmente di un marrone sbiadito. Nella parte sottostante si vedevano le filiformi tracce verdi di un circuito stampato. A un terzo dalla sommità c’era un piccolo cerchio, probabilmente il punto intorno al quale il disco interno ruotava quando era in funzione. Un’etichetta diceva: «Garanzia non valida se il sigillo viene rotto.» «Non è valida nemmeno se è stato trovato nella bocca di una donna morta?» si chiese Nina.
«Un hard disk,» disse la donna, diligentemente. Gli uomini stavano evidentemente andando a parare da qualche parte, ognuno cercando di rivendicare l’esclusiva.
«Giusto,» disse Vince. «È un Toshiba MK4309, con capacità di poco superiore ai quattro giga, sorpassato rispetto agli standard attuali, e il numero di serie ha confermato che è stato prodotto circa due anni fa.»
«Siamo stati inoltre in grado di stabilire che il disco è stato installato in stabilimento su una macchina assemblata in Giappone e importata negli Stati Uniti a metà del 2002,» intervenne Monroe. «Lo stiamo facendo girare proprio adesso. Potrebbe dirci chi era la donna, o forse no.»
«Ci sono ancora delle persone che girano per strada con le foto della vittima,» aggiunse Olbrich. Nina lo aveva incontrato diverse volte in precedenza, quando Zandt faceva ancora parte della Omicidi, e l’uomo l’aveva impressionata perché si era rivelato uno dei detective meno narcisi che avesse mai conosciuto. «Sappiamo che il giorno in cui è morta non aveva mangiato molto, ma aveva in compenso bevuto un sacco. Due ore fa ho mandato due detective in tutti i bar e i locali dei dintorni del Knights. La prima volta non avevamo trovato niente, ma…»
«E nella stanza non avete ancora trovato niente sull’assassino?»
Lui scrollò le spalle. «Niente impronte, né fibre, niente sulla vittima. A quanto sembra questo tizio non ha mosso foglia.»
«E per quel che riguarda il disco?»
«Era vuoto,» rispose Olbrich, «eccetto per due cose.»
«Due cose,» ripeté il tecnico, risoluto a non perdere il suo momento di gloria. «Il file più grande è un MP3 di sette mega, un brano musicale.»
«È l’Agnus Dei del Requiem di Fauré,» disse Monroe. «Un brano piuttosto noto, sembrerebbe. C’è della gente che sta cercando di capire che registrazione sia, e in ogni caso cercheremo di rintracciare acquisti recenti di CD, ma non mi aspetto molto perché avrebbe potuto anche essere stato scaricato da Internet, per quanto ne sappiamo.»
«E dunque?» disse Nina stufa di incalzarli.
«Prima mi hai chiesto da dove veniva,» disse Monroe. «Hai detto che poteva saltar fuori qualcosa. Si direbbe che tu abbia ragione.»
Spinse il pezzo di carta verso di lei. «Leggi questo.»
Nina lesse:
«Il sonno è delizioso. La Morte ancora meglio. Non essere nati è evidentemente il miracolo.»
Sua madre non permetteva alla nonna di fumare in casa. Così c’erano giorni in cui l’umore della vecchia signora non era dei migliori e altri in cui insisteva per essere portata fuori in veranda. La lasciavano lì, per quanto facesse freddo o piovesse a dirotto. Sua madre non l’avrebbe aiutata a entrare: e proibiva a lui di fare lo stesso. Avrebbe dovuto raccomandarsi l’anima a Dio se si fosse opposto al suo volere o se avesse fatto qualsiasi altra cosa. La nonna rimaneva fuori fino a quando sua figlia non si calmava ed era disposta a farla rientrare. Comunque lo faceva senza un minimo di gentilezza.
In una di queste giornate, un pomeriggio così gelido che dal tetto pendevano i ghiaccioli, lui chiese a sua nonna per quale ragione lei preferisse stare sulla veranda al freddo quando dentro era caldo e accogliente.
Per un po’ la donna fissò il vuoto, al punto che lui cominciò a dubitare che l’avesse sentito.
«Conosci quel gioco,» disse lei alla fine. ««Perché il pollo attraversa la strada?»
Disse che lo sapeva: per andare sull’altro lato.
«Bene, con le sigarette è la stessa cosa.»
«Non capisco.»
La donna pensò ancora un attimo. «Finisci col vivere dal lato sbagliato della vita. Non so spiegarmi meglio. Ogni sera devi attraversare questa strada, al buio, per arrivare a casa. Non riesci a capire se sta arrivando qualche macchina, perché c’è il vento che copre ogni rumore, ma la cosa non ha una grande importanza perché la strada non è molto trafficata. Ma più fai avanti e indietro, nel buio più totale, e più diventa probabile che prima o poi una di quelle macchine ti investa. Le macchine sono un cancro, e sono grosse e potenti e vanno a tutta birra, e se ti prendono, muori.»
«Ma… allora perché continuare ad attraversare la strada?»
Ci fu un sorriso forzato. «Per andare dall’altra parte.» Scrollò le spalle. «Vedi, è troppo tardi. Ti sei fatto il letto e ora devi dormirci dentro. L’unica cosa che puoi fare è cercare di assicurarti di non finire a vivere sul lato sbagliato della strada.»
Tossì per un po’, quindi si accese un’altra sigaretta. Prese una bella boccata e la trattenne per osservare la punta incandescente. «Non provare a cominciare con questa merda, capito?»
«Non temere,» disse.
Fece del suo meglio per rispettare il suo avvertimento: fece attenzione con l’alcool, non assunse mai droghe e non permise mai che il cibo, o l’esercizio fisico, o la pornografia, o il collezionare bambole cinesi gli prendessero la mano e pretendessero di essere suoi amici.
Nonostante questo, una notte di sette anni dopo, si ritrovò con le mani insanguinate e capì di aver trovato la propria personale strada per il fumo.
«Cristo,» disse Nina alla fine.
«Ha già ucciso in precedenza,» disse Monroe.
«O vuole che noi lo pensiamo.»
Monroe fece un sorriso tirato. «Possiamo essere sicuri che è capace di rifarlo. Su questo siamo tutti d’accordo, vero?»
«Sì,» disse lei. «Su questo sono d’accordo.» Le bruciavano gli occhi. «Da cosa è tratta la citazione?»
«Non lo sappiamo ancora.»
«Ti senti bene, Nina?» Questa volta era stato Olbrich a parlare.
Lei annuì continuando a fissare il biglietto. «Sono solo incazzata. Un biglietto che dice: ‘Eccomi qui’ e un Requiem, Cristo santo. È come se ascoltassimo i suggerimenti di un pazzo.»
«Non è strano questo parlare di sé in terza persona?» disse Olbrich.
«Non particolarmente,» rispose Nina. «È stato notato molte volte negli interrogatori. Ted Bundy, per esempio. Potrebbe essere un modo per permettere loro di aprirsi. La teoria dice che in questo modo riescono a descrivere crimini dai quali altre parti della loro mente desiderano dissociarsi. Nel caso di Bundy questo gli permise anche di descrivere situazioni ipotetiche — ‘Immagino che un assassino in una situazione del genere farebbe questo e questo’ — senza ammettere effettivamente la propria responsabilità. Riusciamo a sapere qualcosa dalle caratteristiche tecniche del file di testo?»