«No, mi dispiace,» disse Vince. «L’hard disk è in un formato standard per PC ma il file non ha alcuna indicazione sul sistema operativo utilizzato: potrebbe essere stato scritto su qualsiasi cosa che va da un supercomputer a un Palm V. C’è qualcuno ai piani bassi che sta setacciando la struttura della directory ma anche in questo caso è meglio non farsi troppe illusioni. Il disco era stato accuratamente ripulito prima di metterci questi file. Abbiamo a che fare con qualcuno che se ne intende di computer.»
«Il che potrebbe essere comunque un’informazione utile,» disse Monroe.
«Assolutamente sì,» disse Nina. «Questo ci dice che è sotto i cinquanta e vive da qualche parte nel mondo occidentale.»
Monroe si girò e la guardò. Nina decise che sarebbe stata una buona idea tornarsene a casa al più presto.
«Una copia di questo materiale ora è a Quantico, alla sezione Profili,» disse Monroe. «Dovrebbero farsene un’idea a breve.» Il tono di voce era un po’ più alto del solito. Suonava serio, zelante, professionale, ma c’era anche una punta di eccitazione. C’era da aspettarselo: se non ti esaltasse andare a caccia dei cattivi, non saresti nelle forze dell’ordine. Ma fin dalla prima volta che aveva lavorato con lui, quando aveva arrestato un killer chiamato Gary Johnson, che alla metà degli anni ’90 aveva ucciso sei donne anziane in Louisiana, Nina non aveva dubitato che i progetti di Monroe fossero ben altri. I crimini e le loro soluzioni erano solo dei mezzi per raggiungere un fine. Lei non riusciva bene a capire quale potesse essere questo fine — la politica? Avere a disposizione l’ufficio ad angolo più grande di tutti gli Stati Uniti? —, ma sapeva che quel fine gli dava più motivazioni che la necessità di guardare negli occhi i parenti delle vittime e dire: «Abbiamo preso l’uomo e non uscirà mai più di galera.» Forse c’era qualcosa di non troppo stupido in tutto questo. Nelle poche occasioni in cui Nina era stata in grado di fare qualcosa secondo questi principi, l’espressione attonita sulle facce dei suoi ascoltatori non era cambiata di molto. Sei madri e nonne muoiono anzitempo e in modi spregevoli; il tizio responsabile viene rinchiuso in una scatola di cemento per il resto della sua vita. Come baratto non sembrava funzionare un granché. Certo, nessuno vuole finire in prigione, e in modo particolare in Louisiana, per aver ucciso, tra le altre, due donne anziane di colore. Non ti va di alzarti ogni mattina dalla tua striminzita branda di metallo domandandoti se è questo il giorno in cui qualche pazzo che vuole ancora bene alla mamma deciderà di rallegrare la giornata di tutti tagliandoti la faccia con un cucchiaio appuntito. Ma Nina non credeva che la maggior parte degli assassini avvertisse appieno la forza della carcerazione, per la semplice ragione che loro non interpretavano la realtà come facciamo noi altri. A ogni modo, dovevano pur sempre vivere: mangiare, dormire, andare in bagno. Guardavano la televisione, leggevano i fumetti. Seguivano dei corsi e si districavano nel labirinto di appelli che sperperando il tempo di tutti bruciavano abbastanza soldi pubblici da poterci costruire metà di una scuola. Questo, naturalmente, era un loro diritto. Quello che non dovevano fare era starsene sdraiati, da soli, in una buca scavata nel suolo, senza nessuna compagnia se non il rumore del terreno che si assesta. Loro non dormivano, con le braccia lungo i fianchi, in un loculo che i loro figli non potevano permettersi e del quale percepivano la crescente umidità, l’inizio della decomposizione.
Quindi sì, forse Monroe vedeva le cose razionalmente. Combattere la battaglia giusta, risalire la scala. Poi tornare a casa dalla moglie e gustarsi una bella cenetta guardando il telegiornale di mezza sera. Chi può dirlo — potresti anche esserci tu, che salvi il mondo. Sarebbe bello. La conclusione del discorso era che l’FBI non era direttamente incaricata di investigare sugli omicidi seriali. Monroe si era lasciato coinvolgere per motivi di avanzamento di carriera. E allora? Qual era la sua scusa, invece?
«Tornatene a casa, Nina,» disse Monroe. «Fatti una dormita. Mi servi in piena efficienza domani mattina presto.»
Nina alzò lo sguardo, sorpresa dal tono della sua voce, e capì di essersi estraniata per circa trenta secondi. Vince le stava gettando uno sguardo lievemente incuriosito; Monroe la osservò senza troppa simpatia. Solo Olbrich aveva la cortesia di guardare da un’altra parte.
Monroe cominciò a parlare con Olbrich in un modo che lasciava intuire che non era richiesto nessun ulteriore input da parte di Nina. La donna rimase in attesa fino a che i due non andarono a raggiungere i poliziotti sul fondo della stanza, poi si voltò verso l’uomo che si era proclamato «fanciullo prodigio» e parlò col suo tono più tranquillo, amichevole e seducente.
«Vince,» disse, «ti devo chiedere un favore.»
Venti minuti dopo lasciò l’edificio con qualcosa nella borsa. Spuntò sulla strada e nella sera che era ancora molto calda, e si domandò se stesse deliberatamente tentando di mandare a puttane la sua carriera.
Aveva bisogno di parlare con qualcuno, ma John non rispondeva al telefono e la ragione era che lui era più fulminato di lei. C’era solo un’altra possibilità, e lei ci pensò su un momento.
Sì, forse. Sarebbe andata a casa per vedere come si sarebbe sentita.
Guidò tranquillamente fino a casa e quando entrò nel vialetto d’accesso aveva deciso di fare la telefonata. Andò in cucina e compose il numero. Gli squilli si succedettero, ma nessuno rispose.
Nina lasciò un messaggio, sentendosi semplicemente come l’ennesima voce sull’ennesima segreteria telefonica.
Capitolo sette
Il retro della casa di Mrs. Campbell dava su un piccolo pezzo di giardino che rivelava tutto quello che la facciata della casa tentava di nascondere. Io mi trovavo nella cucina, sforzandomi di attendere pazientemente mentre lei trafficava con stoviglie e posate. Mi ricordai che una volta mia madre mi aveva detto che il giorno in cui rifiuti una bevanda calda da una persona anziana, quello è il momento in cui lui capisce che la sua compagnia non interessa a nessuno. Comunque, io non sapevo un cazzo di piante e la vista non era affatto interessante. Ci volle tutta la mia pazienza perché non prendessi la vecchia per il collo.
«Anche Muriel è stata adottata,» disse, quando alla fine mi condusse nel salotto. «Gliel’ha detto?»
«No,» risposi, facendo velocemente un passo verso di lei per prenderle il vassoio. Non so cosa preveda il galateo in questo caso, ma per come la vedevo io, nel giro di dieci secondi sarebbe finito per terra e non mi andava affatto l’idea di dover attendere che preparasse il caffè una seconda volta. «Mi ha detto solo che non poteva aiutarmi, e questo è stato praticamente tutto.»
«A volte fa così. L’ho conosciuta quando cominciò a lavorare lì. All’inizio sono stati anni difficili. Prima il marito l’ha lasciata, ripulendo la casa quando se n’è andato. L’ha anche picchiata. Ma malgrado tutto, si è ripresa e ha fatto il suo dovere aiutando un sacco di persone a uscirne. Molte persone vanno in un posto come quel vecchio e grande ufficio sulla Adam e si dimenticano che anche gli impiegati sono esseri umani, con le loro vite.»
«Capisco che possa essere un lavoro difficile,» dissi. «A volte non è facile trattare con le persone.»
«Esatto, è proprio così. Certo, anche alcuni di quelli che lavorano lì sono degli stronzi.»
Risi. La donna fece un cenno di approvazione. «Dovrebbe sorridere più spesso,» disse. «Ha un aspetto piacevole quando lo fa. Succede a molti, ma a lei particolarmente. Quando non sorride, sembra che voglia fare del male alle persone.»