«Non è così,» dissi.
«Lo dice lei.»
«Mrs. Campbell, ho la sensazione che…»
«Sì, sì, ora ci arrivo. Lei sta cercando un fratello, vero? Muriel ha detto che lei pensa che i fatti risalgano al 1967. I conti tornerebbero. In effetti, per quel che ricordo era ottobre. Anche se, a dire la verità, la mia memoria non è più come un tempo. Funziona per le cose, ma un po’ meno per i fatti.»
Mi limitai ad annuire. Sentivo il mio petto stretto in una morsa.
«Fu un negoziante cinese a trovarlo per strada. Un bimbo che aveva appena imparato a camminare. Non so quanto tempo fosse rimasto lì, ma aveva pianto un bel po’.»
«I miei genitori avevano le loro ragioni,» dissi, sentendo un bisogno assurdo di difendere una decisione che non era stata mia e che comprendevo appena. «La situazione era complicata.»
«Ne sono certa. E non lo hanno abbandonato in mezzo a un deserto, almeno, il che è già qualcosa. A ogni modo, capimmo che il suo nome era Paul, perché c’era il suo nome ricamato sul maglione. Naturalmente, in quel periodo, molte famiglie erano solite scegliere un nuovo nome, ma quello di Paul rimase. Effettuammo i soliti controlli, ma non riuscimmo a rintracciare da dove potesse essere arrivato e così fu dato in affidamento qui in città. Ci rimase qualche anno. Di solito trovare una sistemazione per un bambino così piccolo e carino non è difficile, ma con questo sembrava che nessuno ne volesse sapere.»
Desideravo sapere che cosa intendeva, ma non volevo interrompere il fluire del discorso.
«Persi le sue tracce per un po’. Ci sono un sacco di ragazzini e ce n’è sempre uno nuovo che ha bisogno di qualcosa. Ebbi di nuovo sue notizie quando stava cominciando a diventare un problema.»
«Di che genere?»
«Stava con una famiglia adottiva per qualche mese, e poi ci veniva riportato, molto prima del previsto. All’inizio non prestai una particolare attenzione alla faccenda, sono cose che succedono. Ma poi cominciò a diventare un’abitudine. ‘Ehi, Paul è tornato. La famiglia in affidamento temporaneo non è riuscita…’ Be’, stavo per dire ‘non è riuscita a farcela’, ma non sembrò mai essere così, o almeno non del tutto. Era semplicemente così, lo riportavano indietro. E deve considerare che si trattava di famiglie che si erano occupate di un sacco di bambini, che erano capaci di accoglierli e di farli sentire a loro agio. Gli trovavamo una sistemazione e mentalmente gli dicevamo addio, e dopo cinque settimane me lo ritrovavo lì, seduto su un davanzale a guardare fuori. Gli chiedevo cosa era successo e Paul mi rispondeva la stessa cosa delle famiglie: non ha funzionato.»
Bevve un sorso di caffè come assorta nel ricordo di errori passati. Tutti abbiamo le nostre sacre icone di colpa. «A ogni modo, alla fine venne deciso che era necessario fare un passo in avanti nella ricerca di una famiglia adottiva e trovare una soluzione a lungo termine. Così parlai a Paul e gli dissi cosa avremmo cercato di fare. Lui annuì — aveva all’incirca sei, sette anni in quel periodo, lo tenga presente — e qualcosa mi disse che non era d’accordo, ma che era consapevole di quanto stava per accadere e si rassegnava all’idea che le cose seguissero il loro corso. Così gli domandai se per caso non volesse trovare una famiglia definitiva e lui mi rispose guardandomi dritto negli occhi: ‘Una ce l’avevo e ora non c’è più. Quando tutto sarà a posto, la riavrò.’»
Sentii un brivido lungo la schiena. «Si ricordava di noi?»
«Non necessariamente. Ma sapeva che un tempo c’era stato qualcosa di diverso. Non c’è bisogno di essere un genio per capire che la sua situazione non era naturale, e lui era un ragazzino intelligentissimo, ci può scommettere. Questo è quanto. A volte i bambini sentono di essere stati abbandonati, portati via da dove avrebbero dovuto stare. Anche quelli che non sono stati adottati lo sentono. È la sindrome del ‘Dovrei essere la principessa delle fate’ o ‘Io sono un re e quando piango la terra piange con me.’ La mia impressione è che anche nel caso di Paul le cose fossero in questi termini.»
Avevo guardato la parte del video riguardante l’abbandono molte volte, senza mai affrontare il problema di cosa dovesse significare per il bambino abbandonato. Negli ultimi tre mesi non mi ero veramente preoccupato di cosa avesse potuto provare. Mi sforzavo di farlo adesso.
«Senta,» dissi, «le dispiace se fumo?»
«Faccia pure.» Sorrise. «Mio marito fumava. Mi piace l’odore. Sa, comunque, che la ucciderà?»
«Non accadrà,» la rassicurai. «È solo una diceria messa in circolazione dai fanatici della palestra e dai maniaci salutisti.»
Annuì, ma non sorrideva più. «Già, è quello che pensava anche lui.»
Qualcosa nel modo in cui lo disse fece sì che, sebbene stessi fumando la sigaretta, non me la godessi molto. «Quindi cosa accadde quando cercaste di trovargli una famiglia definitiva?»
«Glielo dirò.» Rimase in silenzio per un attimo prima di continuare. «Sa, mi sono occupata di queste cose per tanto tempo e ci ho pensato su parecchio. Una parte di me è convinta che il posto dove siamo nati si infiltra in noi come l’acqua che sgorga dal suolo, che abbiamo foglie come gli alberi, e che il posto dove si deposita il seme che poi diventerà noi sarà quello che ci determinerà e che stabilirà il colore delle nostre foglie — anche se qualche uccello ci prende e ci trasporta a cento, duecento chilometri di distanza. C’è poi un’altra parte di me che pensa: be’, cavolo, siamo o non siamo tutte creature di Dio? Non siamo altro che esseri umani. Non è questo quello che dice la Bibbia? Allora cosa importa se un bambino viene cresciuto da qualcuno che non è suo parente o lontano da dove è nato? Dagli una buona sistemazione e può darsi che non accada mai nulla. Ho visto questo metodo funzionare centinaia e centinaia di volte. Non è sempre facile, ma funziona, ed è una delle cose che mi fa credere che noi umani non siamo poi così cattivi, in fondo.»
Scosse la testa. «Trovare una famiglia adottiva per Paul non era così semplice. Venne sistemato in tre famiglie diverse da allora: la prima durò un anno, un altro affidamento presso una coppia che aveva già una figlia più grande. In quel periodo ero alle prese con problemi personali piuttosto seri: mio marito si era ammalato. Un lunedì mattina arrivai al lavoro con il mio carico di pensieri e mi venne detto che Paul si trovava in una stanza a un altro piano. Lo avevano trovato seduto sui gradini quando la gente aveva cominciato ad arrivare al mattino. Non era fuggito, era stata la famiglia a portarlo lì. Fece avanti e indietro per qualche mese, poi riuscimmo a trovargli un’altra famiglia, con la quale Paul restò due anni interi, fino a quando lui non ebbe dieci anni. Poi, un giorno, sentii bussare alla porta del mio ufficio: era la madre adottiva. La donna mi disse, cortesemente, che non ce la facevano più, che il problema non era Paul, ma solo il fatto che adesso lei aveva una bambina sua e avevano deciso che l’affidamento non faceva più per loro. Io mi infuriai, glielo giuro. Le cavai gli occhi, quasi. Quello non era il modo di comportarsi. Però… non si può lasciare un bambino con persone che non lo vogliono più.»
Prese la tazza, si accorse che il caffè era freddo e la rimise giù. «Ne vuole…»
«Va bene così,» dissi. «La prego, continui.»
«Rividi Paul a casa, poco dopo. Ero dispiaciuta per il bambino. Gli dissi che pensavo lo avessero trattato ingiustamente. Lui si limitò a fare spallucce. ‘Ce l’ho già una famiglia,’ ripeté. Mi preoccupai nel sentire che pensava ancora una cosa del genere e cercai di fargli capire che non era il caso, e che ci doveva aiutare a trovare un altro nucleo familiare con cui potesse stare. Aveva avuto un padre e una madre naturali, e questo sarebbe stato vero per sempre, ma ora doveva stare con qualcuno di diverso. ‘Non parlo di loro,’ disse. ‘Loro non erano reali, ma avevo un fratello e lui era vero, era proprio uguale a me.’ Mise un forte accento su quel ‘proprio’: ‘Proprio uguale a me’, fu quello che disse.»