Quando feci per prendere il portafogli e pagare la prima birra, mi ricordai che avevo spento il cellulare. C’era una chiamata persa. Non riconobbi il numero ma poteva essere solo quello di due persone, così richiamai.
Lei rispose prontamente. «John?»
«No,» dissi. «Sono Ward. Il tuo telefono ti dice chi sta chiamando, Nina. Basta guardare il display.»
«Giusto,» disse. «Che stupida. Dove sei?»
«A San Francisco,» risposi.
«Oh, e perché?»
«Qui ho lasciato il cuore. Sono venuto a riprendermelo.»
«Bella mossa. In che condizioni è?»
«Appena usato,» dissi, e lei rise brevemente. «Che succede?»
«Nulla,» rispose. «Be’, non è vero, qui le cose stanno degenerando. Abbiamo avuto un doppio omicidio questa mattina; qualcuno ha lasciato una sconosciuta morta in uno squallido motel e poi ha sparato a un poliziotto per ribadire il concetto. Ha lasciato un hard disk dentro la donna.»
«Delizioso,» dissi.
«Non molto. È un affare della polizia di Los Angeles, naturalmente, ma Monroe ci si è buttato a pesce, e così ci sono dentro anch’io. Mi chiedevo se avevi voglia di dare un’occhiata a questo disco. Ne ho fatto una copia, non ufficiale. So che facevi queste cose in modo professionale.»
«Certo,» dissi. «Anche se Bobby sarebbe stata una scelta più sicura. E anche una copia byte per byte non è esattamente come l’originale. Comunque ci darò un’occhiata.»
«Hanno già trovato un appunto e un brano musicale. Quest’ultimo ha un che di teatrale.»
«Che musica è?»
«Il Requiem di Fauré.»
«Bello.»
«Non l’ho ascoltato.»
«Dovresti. È una composizione piuttosto eccitante, tenuto conto che è stata pensata per gente defunta.»
Nina rimase in silenzio per un po’ e io evitai di parlare.
«Stai bene, Ward?»
«Diciamo di sì.» Le raccontai, in breve, quello che ero venuto a sapere da Mrs. Campbell. «Così mi ha mandato in tilt. Inoltre…»
Mi strinsi nelle spalle. Lei se ne accorse. «Sì,» disse. «Lo so. A volte faccio… faccio un sogno: sono di nuovo a The Halls sul pavimento dell’edificio d’ingresso, dopo essere stata ferita. Tu e John state perlustrando le case per cercare di trovare Sarah Becker. Bobby non c’è e non so dove sia. Io sono a terra dolorante e qualcuno sta venendo a prendermi: e questa volta penso che potrebbe riuscirci.»
«Cazzo,» dissi; «Non mi sembrano cretinate.»
«L’ho rifatto giusto tre ore fa. Ogni volta diventa più lungo e spesso mi domando quando arriverà il momento che non si interromperà, che verrò raggiunta e non mi sveglierò.»
«I sogni durano quanto gli permettiamo di farlo,» dissi. «Sia i belli che i brutti.»
«Molto profondo, Ward-san.»
«Già, scusa. Non ho la più pallida idea di cosa volessi dire.»
Lei rise, ma questa volta con maggior convinzione, all’apparenza.
«Okay, allora. Chiamami quando hai il disco,» dissi. «Verrò lì, qui non c’è più nulla da fare.»
«È qui sul mio tavolo, ora,» disse.
Ero stato a casa di Nina solo una volta in precedenza, e per pochissimo tempo, ma riuscivo a ricordarmela molto chiaramente. Per un breve istante desiderai essere lì, seduto su uno scomodissimo sgabello con un bicchiere di birra e circondato da un indistinto chiacchiericcio. Lì oppure in casa di qualcun altro. In un qualunque posto che somigliasse a una casa.
«Non lasciare che John ci metta le mani,» dissi. «Sarò lì domani sera. Me lo puoi passare?»
«È uscito,» disse. «Gli dirò che stai arrivando.»
Salii in camera e fumai come una ciminiera. Non sembrò aiutarmi in alcun modo, ma almeno mi tolse la scimmia della nicotina dalla schiena. Tirai la poltrona della camera fino alla finestra, sollevai il vetro e rimasi per un po’ seduto a guardare fuori. Davanti ai miei occhi, alti edifici scuri e luci. Sentivo i rumori della vita provenire dall’esterno e da sotto. Mi sentivo come se fossi stato seduto sulla sommità di un vasto continente, solo, senza tribù, focolare o territorio di caccia.
Lentamente, la profondità del mio campo visivo si ridusse fino a che non mi ritrovai a osservare i miei piedi, appoggiati sul davanzale. Dev’essere una vita difficile quella delle dita dei piedi oggigiorno. Vengono rinchiuse in piccoli e oscuri spazi di pelle e lì dimenticate, e quando ne vengono liberate hanno molto spesso l’aspetto di strane protuberanze all’estremità dei tuoi piedi.
Alla fine mi addormentai e sognai.
Mi trovavo in una qualche vecchia città, un posto fatto di strade acciottolate e di case fatiscenti, con una piccola piazza che ospitava un mercato agricolo e bancarelle che vendevano oggetti per la casa. Io ero più giovane, ancora adolescente, ed ero innamorato della reginetta del mercato, una fanciulla dai capelli lunghi e bellissima, che rifulgeva dall’alto della confidenza con cui si muoveva in mezzo a ogni viale di quelle bancarelle palpitanti, in mezzo alle quali era cresciuta, e che sentiva scorrere attraverso il suo corpo la forza e la vita che emanavano da esse: sicura della sua bellezza, irraggiungibile, ma al tempo stesso così stupenda da suscitare l’amore di tutti. Ci fu un momento che sembrò di memoria reale, una breve visione di lei mentre camminava tra i banchi con un paio di ragazze più piccole al seguito: il suo volto era quanto di più luminoso ci fosse al mondo ed era incorniciato da una cascata di capelli scuri illuminati da riflessi castani.
Poi, qualche tempo dopo, ritornavo in quei luoghi come uomo adulto, più sicuro di sé, ma più arido, un uomo che aveva perso in magia quanto aveva acquisito in altezza. Il mercato si era ridotto a pochi banchi che lasciavano intuire le dimensioni delle strade — mentre prima sembrava che il mercato vivesse in un regno tutto suo, senza bisogno di un simile ambiente nel quale vivere. Lo percorrevo sentendo un’eco dove prima c’era stato solo il rumore delle contrattazioni e delle risate.
E poi la vidi. Lavorava in una bancarella dove si vendeva un po’ di tutto: scampoli di tessuti, bottoni assortiti, oggetti di plastica. I capelli erano tagliati corti ed erano diventati grigi prima del tempo. Il viso mostrava ancora i segni della giovinezza, ma la ragazza si era appesantita e sembrava più bassa, aveva l’aria professionale come possono avere i proprietari di un banco del mercato.
Passai davanti alla bancarella e la vidi mettere qualcosa dentro un sacchetto di plastica, un acquisto da due dollari fatto da una signora anziana. Mi resi conto che ormai era una donna che gestiva un banco del mercato. La principessa che ero tornato a vedere per dimostrarle che ero diventato un uomo, e che quindi valevo qualcosa, che meritavo il suo sguardo, non c’era più: e la cosa più terribile era che qualcuno aveva preso il suo posto nel mondo. Se non l’avessi vista, avrei ancora potuto credere che lei camminava da qualche parte, sempre avvolta di magia, desiderio e sorrisi.
Ma ora l’avevo vista e non potei fare altro che allontanarmi dal mercato e poi voltarmi a osservarlo, consapevole che la mia gioventù, il mio cuore, quella cosa che mi aveva tenuto a galla per tutti quegli anni, erano morti. Solo allora compresi che sebbene mi avesse guardato, lei non mi aveva riconosciuto: e che nonostante lei ora fosse solo la proprietaria di un banco del mercato, io non ero — e non ero mai stato — nulla.
Quando mi svegliai, mi girai intontito verso l’orologio vicino al letto e rimasi stupito vedendo che era passata solo un’ora.
Il mio cellulare squillò. Lo presi e riconobbi il numero.
«Sei tornato,» dissi.
Ci fu un attimo di silenzio. «Sono Zandt,» disse.