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«Lo so,» dissi confuso. «Prima eri fuori.»

Ci fu un’altra pausa. «Ward, sono in Florida.»

Anche questo non aveva molto senso per me, ma non me ne preoccupai. «Bene, sono contento per te. Allora?»

«Yakima,» aggiunse.

Mi rimisi a sedere. «Cosa hai scoperto?»

«Ho avuto un’informazione. Insomma, più o meno. Non è detto che abbia poi tutto questo senso.»

«Be’, io ho detto a Nina che sarei andato a trovarla a Los Angeles domani. Perché non ci vediamo lì?»

«Hai parlato con Nina oggi? Perché?»

«Mi ha chiamato lei. Sta seguendo un’indagine su un paio di delitti e vorrebbe che dessi un’occhiata a un hard disk.»

«Quindi dove ti trovi adesso?»

«A San Francisco.»

Ci fu una pausa. «Perché?»

«Ho cercato di scovare le tracce dell’Homo Erectus, ma senza molto successo.»

«Rimani lì, verrò io da te.»

«John, te l’ho appena detto: in teoria dovrei andare da Nina.»

«Non voglio andare a Los Angeles.»

C’era qualcosa di strano nella sua voce. «D’accordo,» dissi. «Vediamoci qui.»

«Ti chiamo quando sto arrivando.»

E con questo la conversazione si interruppe. Ero praticamente sicuro che quella stonatura nella sua voce dipendesse dal fatto che era ubriaco.

Ci pensai un po’ su e poi chiamai Nina dicendole che ci sarebbe voluto un giorno in più prima che arrivassi da lei. Non le spiegai il perché. Lei, invece, disse che mi aveva spedito il disco.

«Ottimo,» dissi. Poi aggiunsi: «John è tornato?»

«Sì, ma è uscito di nuovo.»

«È difficile tenerlo fermo da qualche parte.»

«Proprio così.» Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi disse solamente: «A presto.»

Mi voltai di nuovo verso la finestra e guardai ancora un po’ la città. Lei ignorò il mio sguardo, come fanno tutte le città.

Capitolo otto

Quella mattina Nina si stava dirigendo verso il quartier generale della polizia di Los Angeles quando ricevette una telefonata: un poliziotto di pattuglia aveva creduto di riconoscere la donna morta della foto. Fece una svolta repentina, e si diresse verso un certo bar chiamato Jimmy’s, vicino a dove La Cienega incontra Hollywood Boulevard.

Parcheggiate fuori c’erano già un’auto di pattuglia e un’auto civetta con un lampeggiante. Nina aggiunse la sua alla collezione ed entrò in fretta. Il bar era buio e odorava di birra; l’aria era viziata, come se fosse passata attraverso i polmoni di troppe persone che non riuscivano a stare sedute diritte. Nina individuò Olbrich in piedi che stava parlando con un tizio con i capelli lunghi e un sorriso smagliante che lasciava intendere che se avesse saputo che sarebbe scoppiato un simile casino non si sarebbe fatto una maxicanna prima di uscire di casa.

«Questa è l’agente Baynam,» disse Olbrich mentre lei si avvicinava. «Don, perché non le racconti quello che mi hai detto?»

«Il suo nome è Jessica,» disse il barista. «Questo è sicuro. E so che viveva a West Hollywood. Sono quasi sicuro anche che il suo cognome è Jones, penso che l’abbia detto un paio di volte e so che la gente qui dentro la chiamava J.J., ma… sa, non tutte…»

«Usano il loro vero nome. Ho capito,» disse Nina. «Jessica era una habituée?»

«Sì. Soprattutto la sera, ma qualche volta anche il pomeriggio.»

«Era una prostituta, Don?»

«No.» Scosse la testa vigorosamente. «Assolutamente no. Credo che prima o poi volesse diventare una cantante o qualcosa di simile, Mi sembra di averglielo sentito dire una volta. Sicuramente era abbastanza carina per farlo. Ora fa la cameriera. O dovrei dire, ‘faceva’… merda.» ; Olbrich lo incalzò. «E credi che fosse qui sabato sera?»

«Sì. Era arrivata verso le cinque con un’amica. Non conosco il nome, ma l’ho già vista prima. Una nera, dai capelli lunghi e lisci. Era una serata di quelle ‘prendi-due-e-paghi-uno’, quindi furono ben presto indaffarate tutte e due.» Tossì. «L’amica è più il tipo entusiasta e di compagnia e sono quasi certo che ha finito per sedersi al tavolo con alcuni tizi e poi se n’è andata con loro. J.J. ha pateticamente gironzolato per un po’ e poi si è seduta con un tizio.»

«Che tipo era?» La voce di Nina era misurata, ma sentì improvvisamente una morsa stringerle il petto… Molto saggiamente Olbrich se ne rimase in disparte.

«Come stavo dicendo all’agente qui, non conosco quell’uomo. L’ho notato semplicemente perché…» Alzò le spalle.

Perché avevi una specie di cotta per Jessica, pensò Nina. Ti capisco. «Aveva spesso incontri con uomini?»

«Piuttosto spesso,» disse l’uomo. Distolse lo sguardo, dirigendolo apparentemente verso le file di tavoli malandati e sedie che doveva sistemare.

Nina lo guardava annuendo. E poi una sera, forse molte sere, un bacio sulla guancia portava un altro drink anche se i soldi erano finiti vero? E tu ci pensi ancora ogni tanto, sebbene per lei non significasse soltanto qualcosa che sarebbe stato dimenticato per sempre al secondo sorso?

«C’era qualcosa di strano in quel tizio?»

L’uomo tornò a guardarla. «Era un tipo normale. Capelli corti, di bell’aspetto, direi. È tutto quello che posso dirvi. Subito dopo ci fu un sacco da fare e quando riguardai era tardi, JJ. se n’era andata e c’era qualcun altro al suo posto. Potreste parlare con le ragazze che lavoravano ai tavoli — potrebbero averli serviti. Non saranno qui prima di sera, a parte Lorna che arriverà per l’ora di pranzo.»

Si udì una voce dalla porta e un uomo in uniforme fece capolino. «Tenente?»

Olbrich si girò. «L’avete trovato?»

«Sì.»

Olbrich fece un cenno con la testa verso la porta. «Nina, abbiamo un indirizzo. Vengo con te.»

«È veramente morta?» chiese il barista.

«Sì,» rispose Nina. «Veramente. Mi dispiace.»

L’uomo annuì e si girò.

Quando Nina arrivò sulla porta, e guardando indietro vide l’uomo che stava passando lentamente un panno su un tavolo di un bar dove doveva continuare a lavorare, pensò: non sappiamo mai veramente chi ci lasciamo alle spalle.

L’indirizzo era appartamento 7,3140 Gardiner. Quando la macchina di Nina arrivò Monroe era già lì fuori con due poliziotti.

«Non perde tempo, eh?» disse Olbrich.

«Puoi dirlo forte.»

L’edificio era a tre piani e tinteggiato di un bianco sporco. C’era una scala esterna che saliva da entrambe le estremità. Nina salì al secondo piano e aspettò Monroe mentre uno dei due agenti cercava di rintracciare il responsabile dell’edificio.

Monroe la guardò. «Ti senti meglio stamattina?»

«Sì,» rispose. Entrambi parlavano a bassa voce. «E grazie per l’interessamento, Charles. Ricevuto qualcosa di utile dalla sezione Profili sul messaggio?»

«Non ancora. E tu sei sicura che non ci sarà nulla. Perché?»

«Non si può certo dire che i risultati siano stati esaltanti con il cecchino di «Washington, vero?»

«Quello era un caso completamente…»

«No, non lo era. Avevano deciso che si doveva trattare di un uomo bianco perché è opinione comune — basata su uno studio non molto scientifico compiuto un bel po’ di tempo fa — che la maggior parte dei serial killer sono bianchi, e così ogni segnalazione telefonica arrivata riguardante tizi di colore venne ignorata. Nel frattempo un paio di persone avevano detto di aver visto dei furgoni bianchi, e all’improvviso tutti hanno cominciato a cercarli, senza considerare il fatto che i furgoni di quel colore sono gli Starbucks dell’autostrada e che quindi sarebbe insolito non vederli. La targa della macchina blu dell’assassino venne immessa nel sistema una mezza dozzina di volte a causa di comportamenti sospetti, ma no, non si tratta di un furgone bianco e alla guida non c’è un bianco, quindi non ci interessa. Gli analisti dicono che gli assassini non lavorano mai con altre persone — peccato che questo lo abbia fatto. In ogni caso non avremmo dovuto dar loro ascolto: chiunque avesse avuto un rninimo di cervello avrebbe dovuto capire fin dall’inizio che non si trattava di un serial killer ma di un pluriomicida che eseguiva una sua missione politico-religiosa, il che rendeva priva di fondamento qualsiasi cosa avessero detto gli analisti. Tutto quello che hanno fatto è stato confondere le idee, e potrebbe essere la stessa cosa qui. Non sono certa di credere ancora nel loro intuito.»