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Lui non rispose nemmeno. Senza staccare gli occhi da Pete allungò il braccio lateralmente e afferrò la ragazza per i capelli. Prima che avesse il tempo per urlare le aveva fracassato la faccia sul muro divisorio. La ragazza emise un grugnito e si accasciò.

Pete ricollegò tutto in un attimo. Il rumore nel corridoio e il baccano fatto con il contenitore del ghiaccio per occultare il fatto che lei stava aprendogli la porta. Non sapeva chi fosse quel tizio o che cosa volesse, ma ora si accorse che aveva un coltello. Era grosso e avrebbe potuto essere un coltello da cuoco. Tuttavia non sembrava affatto pulito.

Improvvisamente la stanza sembrò gelida, scialba e piena di fumo stantio. L’uomo scavalcò la ragazza, distogliendo per un attimo lo sguardo. Pete intuì vagamente che quella era un’occasione, che doveva alzarsi, muoversi, uscire di lì, ma sembrava incapace di fare qualunque cosa. L’uomo aveva un’altezza di poco superiore alla media ed era longilineo. Pete era più pesante di diversi chili e aveva una lunga esperienza nello spaccare la faccia alla gente, ma non era affatto convinto che questo avrebbe fatto una qualche differenza. Si sentì grasso, nudo e impossibilitato a cambiare il corso del mondo.

«Lei è Peter Ferillo, vero?» disse l’uomo prendendo qualcosa sul bancone. Quando scintillò, Pete vide che si trattava del cavatappi che era in camera e quando l’uomo rivolse il suo sguardo verso di lui, tutte le ipotesi di movimento sembrarono svanire.

«Senti,» disse Pete, «non so che cazzo sta succedendo qui dentro, ma ho dei soldi. Se è questo che vuoi, tutto si può sistemare.»

«Non è una questione di soldi,» disse l’uomo. La sua voce era suadente, quasi amichevole, a differenza dei suoi occhi.

«Allora che c’è?» chiese Pete. «Cosa ho fatto?»

«Non si tratta di te,» disse l’uomo.

«Chi diavolo sei?»

«Il mio nome è… Homo Erectus.»

L’uomo osservò il volto di Pete per cogliere la sua reazione. Fece ruotare il cavatappi fra le mani in modo distratto, poi annuì — come se, colto da un’improvvisa ispirazione, gli avesse trovato un utilizzo. Pete non capì che cosa potesse essere.

Lo scoprì nel corso dell’ora e mezza successiva.

Parte II

La strada del fumo

Questo è ciò che sono intenzionato a fare, ma non so perché
Gerard Schaefer, serial killer
Into the mind of the ghoul

Capitolo dieci

Quando l’uomo comparve per la prima volta, Phil Banner se ne stava appoggiato alla macchina davanti all’Izzy’s intento a mangiarsi un sandwich caldo ai funghi e alle uova che non aveva pagato. Non che fosse colpa sua — lui si offriva sempre di farlo, ma Izzy diceva sempre di no — ma la cosa lo faceva sentire comunque un po’ colpevole. Non abbastanza però per fargli smettere di mangiare, né per farlo rinunciare a ritornare nel locale quasi tutte le mattine. Il sandwich era buono e riccamente imbottito e non particolarmente adatto a essere mangiato con le mani, e il tizio insanguinato era probabilmente visibile già da qualche minuto prima che Banner alzasse la testa e si accorgesse di lui. Quando lo fece rimase a osservarlo per cinque secondi buoni, intento a masticare e non del tutto sicuro di quello che aveva davanti agli occhi, prima di mettere giù il panino.

L’uomo stava camminando proprio in mezzo alla strada. Non c’erano macchine perché erano le otto e mezzo del mattino e faceva molto freddo, ma non sembrava che la presenza di traffico avrebbe cambiato il tragitto dell’uomo. Aveva l’aria di qualcuno che non sapesse dove si trovava e aveva indosso uno zaino che sembrava nuovo e malridotto al tempo stesso. Barcollava come un personaggio uscito da qualche film di zombie, strascicando una gamba, e quando Phil fece qualche cauto passo verso di lui vide che era anche sporco di sangue. Era sangue rappreso, o così sembrava, ma ce n’era dappertutto. Sulla fronte dell’uomo c’era un grosso bernoccolo attraversato da un brutto taglio, e innumerevoli altre ferite e abrasioni su viso e mani. Il fango secco copriva quasi tutto il resto e praticamente tutti i suoi vestiti.

Phil fece un altro passo. «Signore?»

L’uomo continuò ad avanzare come se non avesse sentito. Respirava regolarmente ma in modo pesante, e il fiato esalato gli avvolgeva il viso. Dentro, fuori, dentro, fuori, come se il ritmo fosse diventato importante per lui. Come se fosse quello o niente. Poi girò lentamente la testa. Continuò ad avanzare, ma stavolta guardò Phil. L’uomo aveva gli occhi iniettati di sangue e la barba di un paio di giorni. C’era del ghiaccio su di essa. Era da molto tempo che Phil non vedeva un uomo che sembrasse così infreddolito.

Alla fine l’uomo si fermò. Batté le palpebre, aprì la bocca, la richiuse, guardò la strada per un attimo. Sembrava così interessato da quello che c’era che anche Phil guardò nella stessa direzione, ma vide solamente lo scorcio di paese rimasto che si aspettava.

«Signore, si sente bene?» Sapeva di aver fatto una domanda stupida. Era evidente che quel tizio non stava bene, ma era quello che dici in questi casi. Incontri una persona con un coltello piantato in testa — non che questa fosse una possibilità concreta in una città come questa; francamente, era molto più probabile soffocare per una lisca di pesce — e le chiedi se sta bene.

Ci fu un cambiamento, lento e irregolare, nell’espressione dell’uomo, e Phil realizzò che forse intendeva essere un sorriso.

«Questa è Sheffer, vero?» chiese. I movimenti del volto erano minimi, come se la bocca fosse ormai sigillata dal gelo.

«Sì signore, esatto.»

Il sorriso si allargò. «Certo che sì.»

«Prego?»

L’uomo scosse il capo, e improvvisamente diede l’impressione di essere più sicuro, come se l’andatura strascicata fosse stata un modo di camminare assunto per riuscire a superare il punto in cui aveva pensato di cadere. Phil si accorse che l’uomo aveva un aspetto vagamente familiare.

«Questo è quel che si dice avere il senso dell’orientamento,» disse l’uomo. «Non c’è che dire.» La sua faccia si contrasse.

Phil vide che Izzy e un paio di clienti del posto erano usciti dal locale e che un gruppo altrettanto numeroso si stava radunando nel piccolo parcheggio del mercato dall’altra parte della strada. Era giunto il momento di prendere in pugno la situazione.

«Signore, ha avuto un incidente?»

L’uomo lo guardò. «Bigfoot,» disse, annuendo, e poi cadde lentamente all’indietro.

Due ore dopo Tom Kozelek si trovava nella stazione di polizia. Era avvolto dentro tre coperte e teneva fra le mani una tazza di brodo di pollo. Era seduto nella stanza che normalmente veniva usata per gli interrogatori, in quelle rare occasioni in cui la polizia di Sheffer doveva interrogare qualcuno, mentre al di fuori di questi casi veniva usata come ripostiglio per cappotti e scarponi bagnati, e per la roba che non si sapeva dove mettere. C’erano una scrivania, tre sedie e un orologio. In precedenza quella stanza era adibita a cucina, ma ormai questa era stata spostata al piano di sopra per essere vicina alla restaurata zona dell’amministrazione, e aveva una parete parzialmente a vetri che avrebbe potuto darle un po’ l’aspetto di una stanza di una qualche struttura delle forze dell’ordine più grande e più urbana, se la vetrata non fosse stata tappezzata di adesivi che celebravano la parata cittadina di Halloween. Tutti gli anni gli adesivi venivano disegnati dallo studente più creativo della scuola d’arte, ed era per questo che la parete in vetro non aveva un’aria professionale: o qualcuno aveva bendato i ragazzi prima di dar loro in mano i colori, oppure Sheffer non avrebbe mai ospitato nessun famoso museo cittadino. Phil Banner aveva in qualche occasione espresso l’idea di farli realizzare a qualcuno che sapesse un minimo disegnare. Gli era stato ribattuto che se avesse avuto dei figli l’avrebbe pensata diversamente. Avrebbe dovuto aspettare per verificare se era vero.