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Phil era in piedi vicino a Melissa Hoffman. Melissa viveva a cinquanta chilometri, a Ellensburg, dove lavorava nel piccolo ospedale della contea. Il medico di Sheffer, il dottor Dandridge, era benvoluto, ma era ormai vecchio come il Padreterno, e decisamente meno infallibile, così negli ultimi tempi era Melissa che si preferiva chiamare in caso di necessità. Aveva passato da poco i trenta, ed era piuttosto carina, anche se non sembrava esserne consapevole. Era felicemente sposata con un bestione che possedeva un piccolo negozio di libri usati e fumava Marlboro Light senza interruzione. Immaginatevi che quadretto.

La donna distolse lo sguardo dalla vetrata. «Direi che sta bene,» disse. «La caviglia è malconcia. È ammaccato un po’ dappertutto. C’è un principio di assideramento, ma niente congelamento. Non è molto preciso sui dettagli, ma da quanto dice si è procurato la maggior parte delle contusioni due giorni fa: se avesse avuto una commozione cerebrale, si sarebbe già manifestata, e lui non sarebbe qui ora. Ha solo bisogno di mangiare e dormire e stop. Gli è andata bene.»

Phil annuì. Sperava vivamente che il capo fosse lì e non a centinaia di chilometri per far visita a sua sorella. «E in quanto al resto?»

Lei scrollò le spalle. «Ho detto che sta bene fisicamente. Dal punto di vista mentale è tutta un’altra storia.» Si voltò verso la scrivania dove lo zaino dell’uomo si era ormai scongelato. L’acqua ghiacciata che lo copriva stava gocciolando sul pavimento. Prese una penna dal barattolo nell’angolo e la usò per frugare, tenendo cautamente lo zaino aperto con l’altra mano. «Questa roba è zuppa di alcool e tu mi hai detto che aveva bevuto prima.»

Phil annuì. Non gli ci era voluto molto per capire perché il volto dell’uomo gli sembrasse familiare. «Stava cercando di fare irruzione nel bar di Big Frank a tarda sera, lo scorso weekend. Dovetti intimargli di smetterla.»

Melissa guardò l’uomo al di là del vetro. Sembrava in uno stato di veglia sonnolenta e incapace di piantare un qualche casino. Mentre lo guardava, l’uomo batté le ciglia lentamente, come un vecchio cane in procinto di addormentarsi. «Sembrava pericoloso? Psicotico?»

«No. Direi triste, piuttosto. Mi sono imbattuto per caso in Joe e Zack il mattino dopo e mi hanno parlato di un tizio che era rimasto lì tutta la sera a bere da solo. È probabile che fosse la stessa persona.»

«Dunque, quattro giorni di alcool, praticamente senza mangiare e infine lo stomaco pieno di sonnifero. Non sono indizi di uno che stia alla grande. Però non ha l’aria di un pazzo.»

«Non ce l’hanno mai,» disse Phil esitando. «Ha detto di aver visto Bigfoot.»

La donna rise. «Già. Ogni tanto la gente lo dice. Quello che lui ha visto veramente era un orso. E tu lo sai.»

«Credo di sì.»

Melissa gli rivolse per un attimo uno sguardo severo e Phil si ritrovò ad arrossire quando lei sorrise. «Tu lo sai, vero?»

«Certo,» disse seccato.

Quello non era il momento per discutere su ciò che molto tempo prima lo zio di Phil credeva di aver visto — o sentito, per essere più precisi — nel profondo della foresta oltre il crinale. Nessuno lo aveva mai preso sul serio, eccetto forse Phil stesso, quando era bambino. Alla fine suo zio aveva smesso di raccontare quella storia. Erano già parecchie le città nelle Cascades che avevano nel loro repertorio di leggende gli avvistamenti di Bigfoot e in diversi chioschi sul bordo della strada si potevano comprare barattoli e muffin che avevano la sagome della grande e pelosa creatura. Non a Sheffer. Da queste partì Bigfoot era considerato una balla, o, come il capo era solito dire, un cumulo di stronzate. Un richiamo ormai trito e ritrito per un certo tipo di città turistiche, nient’altro, e Sheffer non faceva parte del gruppo. Sheffer era una città tranquilla e distinta, che un tempo era stata usata come ambientazione per una bizzarra serie televisiva. Aveva il museo ferroviario con il suo bel materiale rotabile esposto. C’era qualche delizioso ristorante dove andava a mangiare solo gente deliziosa. La città voleva che le cose continuassero a essere così. E soprattutto, lo voleva il capo.

Ma quando quel Tom aveva pronunciato quella parola, in strada si erano riversate moltissime persone e non tutte erano del luogo. Alla fine della giornata alcuni avrebbero potuto raccontare l’accaduto ai loro parenti e amici. Phil sapeva anche come la pensava il suo capo sull’argomento e si rammaricò di non essere riuscito a portare il tizio da qualche parte prima che potesse pronunciare quella fatidica parola. Un po’ di onesta pubblicità era una cosa: divulgare la notizia che una o due star televisive avevano passato la notte in città nel corso dell’ultimo decennio era più che legittimo, ma un gruppo di reporter che arrivavano per dipingere la città come un manipolo di bifolchi attaccati ai soldi non sarebbe stato un bel colpo. Quando Phil lo aveva chiamato sul cellulare, il capo gli aveva detto che sarebbe stato di ritorno al più tardi nel primo pomeriggio. Phil ne era contento.

«Vado a vedere se quel tizio vuole ancora un po’ del brodo di Izzy,» disse, e Melissa annuì.

Vide Phil entrare nella stanza, sedersi all’estremità del tavolo e rivolgersi con modi gentili all’uomo. Era convinta che Kozelek avrebbe dovuto realmente essere esaminato per valutare gli effetti dell’assunzione dei sonniferi, ma lui aveva opposto un fermo rifiuto all’ipotesi di andare all’ospedale e lei non aveva alcun potere per costringerlo. Era sopravvissuto a tre giorni e tre notti veramente gelidi passati nella foresta e aveva percorso una distanza enorme su un terreno impervio. Tutto sommato, sembrava in buona forma per uno che aveva tentato di uccidersi. C’erano elementi per dire che sarebbe stato opportuno che parlasse con qualcuno anche di questa parte della storia, ma ancora una volta, non era una cosa che lei poteva imporre. Era convinta che quando il suo cervello si fosse scongelato a dovere, sia il suicidio che la storia dell’incontro con creature sconosciute sarebbero usciti dalla sua mente. Quindi avrebbero potuto rispedirlo a Los Angeles o dovunque fosse casa sua e la vita a Sheffer avrebbe ripreso a scorrere come al solito.

Mentre si voltava per andarsene notò qualcosa sul fondo dello zaino aperto. Si fermò per dare un’occhiata più da vicino. Tra le schegge di vetro e i fradici resti delle confezioni di pillole c’erano alcune cose che assomigliavano a piccoli mucchi di fiori secchi.

Ne tirò fuori uno e vide che non si trattava affatto di fiori; erano più come steli corti e infradiciati. Probabilmente quella roba si era infilata dentro la sacca quando l’uomo, attraversando la foresta, doveva aver urtato contro cespugli e alberi.

Oppure erano stati semplicemente comprati da un fioraio qualunque a un angolo di una strada chissà dove.

Lì c’era un uomo che pretendeva di aver visto delle cose e che, a detta di tutti, aveva cercato di irrompere in alcuni bar, e nel suo zaino c’era un mucchietto di materiale che sembrava di origine vegetale. Che dire? In parte per scrupolo professionale, ma essenzialmente per curiosità pura e semplice, ne infilò un mucchietto nella sua borsa e poi uscì per tornare in ospedale, dove era abbastanza sicura che non stesse accadendo nulla di interessante.

Verso l’ora di pranzo Tom cominciò ad avvertire un forte mal di testa. Il dolore si era manifestato già qualche tempo prima, e in effetti si era fatto sentire per buona parte del tempo in cui aveva errato nella foresta. Ma ora era diverso, era peggio.