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Tom era ancora seduto sulla sua sedia nell’ufficio con la finestra. Perlomeno, è così che ormai lo considerava. Ci aveva passato sopra tutta la mattina quindi era diventata sua. Dopo la sua ultima esperienza le cose erano diventate più semplici per Tom. Ormai pensava le cose in termini elementari. Il possesso era i nove decimi di qualsiasi cosa. Quella sedia ora gli apparteneva e guai a chi avesse provato a togliergliela, anche se, a dire il vero, non sembrava esserci nessuno intenzionato a farlo. Il tizio di nome Phil faceva capolino ogni tanto, ma altrimenti, dopo la visita della dottoressa, era stato lasciato solo.

Intanto il suo mal di testa procedeva lentamente ma con un tecnica sopraffina, professionale. Questo era un mal di testa che sapeva il fatto suo e aveva un’esperienza rilevante. Gli avvolgeva la testa come un copriletto freddo, pesante e persistente, e aveva cominciato a collocare degli avamposti anche nelle altre parti del suo corpo, in primo luogo nell’intestino. In un certo senso Tom aveva detto alla dottoressa di non voler andare in ospedale anche per vedere la sua reazione. Se avesse abbaiato «Ripensaci, imbecille, ormai ce l’hai nel culo, perciò ti trascineremo per i capelli in un posto terrificante pieno di macchine con luci verdi dove potrai morire,» allora ci sarebbe andato tranquillamente. Però non l’aveva fatto, il che significava che c’era una possibilità che stesse bene. In linea di massima, in effetti, Tom si sentiva a posto, fatta eccezione per il mal di testa e il fastidio all’intestino, che lui era propenso a considerare come una conseguenza dell’emicrania. Aveva letto da qualche parte che lo stomaco è avvolto da uno strato di tessuto neuronale che era anzi il più esteso di tutto il corpo (dopo il cervello, naturalmente). Ora si rendeva conto che tutto questo poteva avere un significato dal punto di vista evoluzionistico: dare agli organi interni abbastanza cervello, per così dire, affinché quest’ultimo possa mandare segnali che dicano: «Non mangiare più quella merda, ricordati cosa è accaduto l’ultima volta,» più o meno come aveva fatto il suo quando lui si era diretto verso il suo zaino, nella foresta. Tom sperava che lo stato nel quale si trovava fosse semplicemente il segnale che il suo stomaco era in sintonia con la sua testa. Se si fosse sentito così per i fatti suoi, allora forse, alla fine, sarebbe andato in ospedale.

Si augurava anche che gli antidolorifici che la dottoressa gli aveva lasciato cominciassero a fare effetto. Il mal di testa gli stava mandando in tilt gli occhi. Era ancora dell’idea che a un certo punto si sarebbe alzato e sarebbe andato a fare una camminata in città, per trovare quel vecchio cazzone che non aveva fatto cenno agli orsi, ma in quel preciso momento quel piano non sembrava realistico: gli sembrava molto probabile che il balordo lo avrebbe fatto nero.

E fu proprio allora che Tom improvvisamente sorrise.

Naturalmente gli orsi non c’entravano più. Una delle ragioni per cui voleva al più presto sentirsi meglio era perché aveva qualcosa di interessante, di molto interessante, da raccontare alla gente. Una notizia che lo aveva mantenuto in vita, che aveva trascinato il suo corpo fuori da quella regione selvaggia. Fino a quel momento si era trattenuto, in attesa del momento giusto. Ma quando fosse giunto il momento…

Poi, il sorriso scomparve. Certo, era in possesso di nuove informazioni, un dato vitale. Ma queste non erano comunque un elemento in grado di cambiare la vita, di cancellare l’oscurità di ciò che era successo prima. La sua posizione era ancora compromessa: una volta compiuta, un’azione è fatta, anche se la gente non lo viene a sapere. L’unica differenza era che ora forse aveva qualcosa di abbastanza clamoroso da dare significato al rischio che non venisse mai scoperto.

Gettò il suo sguardo annebbiato attraverso il vetro, in direzione dell’ufficio dello sceriffo di Sheffer, dove Phil, che Tom pensava con sempre maggior convinzione di avere vagamente conosciuto prima della sua esperienza nella foresta, svolgeva il suo lavoro. Phil era giovane e di corporatura esile per essere un poliziotto: la maggior parte degli agenti di città sembrava passare tutto il tempo in palestra per assicurarsi delle braccia muscolose che risaltassero adeguatamente nelle loro magliette a mezze maniche. Ogni tanto Phil entrava nella stanza e ogni tanto ne usciva. Questo era quanto. Probabilmente al di là dell’avere a che fare con incidenti stradali, con persone che non pagavano il conto al bar e occasionalmente con qualche lite familiare frutto di serate invernali troppo lunghe, il suo lavoro non doveva essere molto movimentato: almeno fino a quando qualcuno non era uscito dalla foresta con una strana storia da raccontare.

Il vicesceriffo sarebbe tornato di lì a poco per vedere come stava e forse gli avrebbe fatto qualche domanda in proposito. Nel frattempo, Tom bevve ancora un po’ di brodo. Si era raffreddato e aveva bisogno di un pizzico di sale, ma altrimenti era ottimo e lo stava facendo sentire meglio.

La sua vista sembrò annebbiarsi lentamente.

La voce proveniva da dietro di lui.

«Signore?»

Tom scosse la testa, conscio del fatto che non sarebbe stato in grado di sfuggire a tutto questo. Qualcosa scricchiolava sotto i suoi piedi. Quando alla fine si voltò, sapeva già quale sarebbe stata la notizia, ma non vedeva come questa potesse trovare un posto nella sua testa.

«Signore?»

Improvvisamente tutto fu diverso. Tom alzò la testa confusa e si rese conto di essere ancora seduto su una sedia di una stazione di polizia, lontanissimo da Los Angeles. Era giorno, lui era avvolto nelle coperte e per terra, a circa un metro di distanza, c’era una piccola stufetta che indirizzava un leggero flusso di aria calda nella sua direzione. Questa è nuova, pensò, non mi ricordo che ci fosse, prima.

Una novità era anche l’uomo che si trovava dall’altro lato del tavolo. Tom lo guardò. «Che ora è?»

«Sono da poco passate le tre, signore,» disse l’uomo. Era molto più anziano di quello che chiamavano Phil. Era anche più alto e largo. Più grande in tutti i sensi. Era seduto in una delle sedie di fronte.

«Chi è lei?»

«Mi chiamo Connelly,» disse l’uomo. «Lavoro qui.»

«Okay.» La voce di Tom, dapprima vagamente petulante, esplose improvvisamente in uno sbadiglio leonino. «Adesso mi sembra di avere sin troppo caldo.»

«Il mio vice ha detto che la dottoressa si è raccomandata di tenerla al caldo e questo è quello che faremo. A meno che lei non ritenga meglio passare la notte in ospedale. Mi sembra ci siano almeno un paio di buone ragioni perché lei si decida per questa opzione.»

«Sto bene,» disse Tom.

L’uomo si allungò verso il tavolo e lo fissò. «Ne è sicuro?»

Ora che era un po’ più sveglio, Tom si rese conto che Connelly non aveva alcuna fretta di stringere amicizia con lui. Non lo stava trattando come qualcuno che era riuscito miracolosamente a salvarsi da un deserto di neve.

«Sicurissimo,» rispose, andando a recuperare la voce che era solito usare nelle riunioni, quando era necessario convincere un cliente che il lavoro di web design proposto era esattamente quello che era stato richiesto, nonostante l’apparente mancanza di rispondenza con quanto discusso nel briefing. Sembravano passati secoli dall’ultima volta che aveva usato quel tono. In realtà erano meno di due settimane, e Tom riuscì a farlo venire fuori, anche se un po’ arrugginito. «Grazie per l’interessamento.»

«Va bene, allora perché non mi racconta la sua storia.»

«Al, lo ha già fatto.» A parlare era stato Phil che stava entrando nella stanza con due tazze di caffè.

Connelly ignorò il suo vice, si risedette e continuò a fissare Tom.

«Mi chiamo Tom Kozelek,» disse quest’ultimo. «Sono… in vacanza. Tre giorni fa, almeno così credo, mi sono diretto sulle montagne. Ho parcheggiato in prossimità dell’inizio di un sentiero, ma non ne ricordo il nome.»