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Lanciai un programma di scansione di tipo professionale e aspettai che facesse il suo dovere. Molte persone sembrano considerare i computer alla stregua di semplici macchine, come l’aspirapolvere o il videoregistratore. Si sbagliano. Fin dai primi esemplari, da quei pallottolieri appena evoluti che erano gli Amiga e gli Apple II, il nostro rapporto con i computer è stato differente. Tutti capirono subito che si trattava di un oggetto che aveva dei diritti. Se la tua lavatrice smette di funzionare o la tv va in tilt, la fai riparare oppure la butti. Si tratta di pezzi di semplice tecnologia trasparente: non hanno alcuna magia. Viceversa, se un computer non fa il suo dovere non sai mai veramente di chi sia la colpa. Ti senti coinvolto e vulnerabile. È un po’ la stessa differenza che c’è tra una matita e una macchina. Una matita è un prodotto semplice e senza sorprese. C’è solo un modo in cui può funzionare — se ha la punta — e molti modi di essere difettosa: se è troppo piccola, troppo spuntata, senza mina. Con una macchina, specialmente il tipo di catorcio arrugginito che ognuno di noi ha usato per il suo primo giro, la faccenda è molto più complessa. Entra in gioco la capacità di essere persuasivi, specialmente nelle mattine più fredde. C’è quel rumore che non sfocia mai in nulla, ma che non scompare mai, quei malfunzionamenti occasionali che cominci a ritenere dipendenti dalle fasi lunari. Ciò non significa che l’auto sia guasta, ma solo che richiede un’attenzione amorevole, che ha le sue necessità. Gradatamente arrivi ad avere un atteggiamento rituale, un legame temprato dall’imprevedibilità, dal fatto che bisogna conviverci. Che poi, dopo tutto, è il modo in cui conosciamo le persone: non per le cose che hanno in comune con chiunque altro, ma perché impariamo a districarci in mezzo alle loro eccentricità, ai loro aspetti aggressivi e alle loro imprevedibili debolezze, in una parola, alle cose che le rendono diverse dagli altri.

Un computer sta nel mezzo: è un po’ come una macchina, ma all’ennesima potenza. I suoi artigli affondano molto di più nella tua vita. Il tuo computer è la tua anima di riserva, una rappresentazione, su più livelli e suddivisa in menu, di chi sei, di chi ti sta a cuore e dei tuoi peccati. Se passi una serata a navigare in rete a guardare donne nude, la tua traccia rimane nella memoria storica del browser e nella cache del disco fisso — senza considerare che viene registrata da tutti i siti che hanno identificato il tuo indirizzo IP quando ci sei passato, così da poterti coprire di e-mail fino alla fine dei giorni. Se scambi occasionalmente delle e-mail civettuole con una collega per poi buttarle tutte via scrupolosamente, sei ancora in errore fino a quando non procedi a svuotare effettivamente la spazzatura del tuo software.

Anche se pensi di essere furbo e getti via tutto, svuotando il cestino, non sei fuori pericolo. Tutto quello che accade quando «cancelli» un file è che il computer butta via il riferimento a esso — come buttare la scheda che si riferisce a un libro sugli scaffali di una biblioteca, e che indica al visitatore dove trovarlo. Il libro in sé è ancora al suo posto e se vai a cercare puoi trovarlo o rintracciarlo. È come un uomo che scrive i suoi appunti a matita su un enorme pezzo di carta. Se accechiamo l’uomo, gli appunti sono ancora lì. Non ci può mettere il dito sopra, non può mostrare dove ognuno si trovi, ma rimangono. Se continua a scriverne (in altre parole, se continua a salvare nuovi file), comincerà a scrivere su quelli originali, rendendo impossibile tornare a quello che era una volta, per capire o addirittura ricordare cosa era accaduto prima, cosa ha reso la sua vita quello che è. A ogni modo, sezioni di questi file rimangono nascoste e perdute, ma reali: sono le esperienze precedenti del computer, separate dal mondo esterno, ma che occupano ancora aree del disco come fantasmi e ricordi, mescolati con il quotidiano. Noi siamo fatti così.

Il software ci mise mezz’ora a completare il suo lavoro. Il risultato fu nullo e confermò semplicemente quello che il tecnico tanto caro a Nina aveva già scoperto: il disco era stato ripulito molto accuratamente prima che i due file venissero copiati lì sopra. Non solo l’uomo che scrive appunti era stato accecato, ma l’avevano anche portato fuori e ammazzato.

Il caffè nella brocca era ormai freddo. Lanciai uno dei programmi di proprietà di Bobby per setacciare la superficie del disco alla ricerca di quello che vi era stato scritto sopra e per verificare in quel brodo primordiale binario qualsiasi irregolarità — o qualche regolarità inaspettata. A parte smontarla fisicamente per esplorarla con le pinzette, non c’era altro che si potesse fare per penetrare a fondo negli oscuri meandri infantili della mente digitale. Il passato resiste alle intrusioni anche tra i circuiti stampati.

Sullo schermo comparve una finestra di dialogo per dirmi che il processo sarebbe durato poco più di cinque ore. Poiché non è molto eccitante stare lì ad assistere, controllai che il cavo di alimentazione fosse inserito a dovere e uscii a fare una passeggiata.

Alle tre del pomeriggio Zandt chiamò dall’aeroporto. Gli diedi le indicazioni per raggiungere L’Espresso e vi ritornai per attenderlo. Quaranta minuti dopo, il suo taxi arrivò. John uscì, lanciò un’occhiataccia al tizio in costume davanti all’hotel e si incamminò verso di me. Procedeva con passo lento e molto regolare. Sapevo cosa significava.

Disse a un cameriere di passaggio di portargli una birra e si sedette di fronte a me. «Ciao Ward. Hai un aspetto un po’ vissuto.»

«Io? Tu sembri un rottame. Come sta Nina?»

«Alla grande,» disse.

Attese la sua birra. Si era tagliato la barba. Non mi chiese come stessi né cosa avevo fatto. Nella mia limitata conoscenza di Zandt avevo imparato che non si perdeva mai in convenevoli. Non faceva mai discorsi inutili: diceva solo quello che doveva dire e poi stava zitto oppure se ne andava. Era evidentemente ubriaco. Bisognava aver passato un po’ di tempo con un bevitore — come avevo fatto io una volta, per un anno — per accorgersene, perché i segni esteriori erano pochi. Le borse sotto gli occhi erano più scure e afferrò il bicchiere nel momento in cui fu posato sul tavolo; ma i suoi occhi erano limpidi e la voce calma e misurata.

«Allora, cos’hai su Yakima?»

«Come ti ho già detto, non molto. Sono tornato a Los Angeles e ho riferito a Nina quello che avevamo scoperto. Lei ha fatto rapporto e non è accaduto nulla. Fondamentalmente ho cominciato a indagare perché.

Scrollò le spalle. Lo capivo. Non c’era molto altro da dire: lui era stato coinvolto nelle indagini sugli omicidi del Ragazzo delle Consegne, e la conseguenza era stata che sua figlia Karen era stata rapita e non fu mai più rivista in vita. Il suo matrimonio era andato a rotoli, lui aveva abbandonato il servizio attivo. Credo sia stato un bravissimo detective: era stato lui a scoprire che l’Homo Erectus era una specie di mezzano procacciatore di vittime che rapiva per conto di ricchi psicopatici che vivevano a The Halls. Ma anche se Zandt avesse desiderato tornare a essere un poliziotto, il che non era vero, difficilmente il dipartimento di polizia di Los Angeles sarebbe stato d’accordo. Quindi cos’altro gli rimaneva da fare? Diventare una guardia giurata? Mettersi in affari? In che campo? Zandt era ormai inadatto ad assumere un qualsivoglia impiego, proprio come me.

«Potremmo farci assumere dai federali.»

«Giusto. Tu sei stato sbattuto fuori dalla CIA. È una cosa che fa sempre impressione. A ogni modo, ti ricordi la parola scritta sulla porta della capanna che abbiamo trovato?»