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Aveva passato un po’ del tempo trascorso seduto a guardare il telefono, domandandosi se dovesse chiamare casa oppure no. Erano tre, quattro giorni che non lo faceva. Non riusciva a ricordarsi se avesse chiamato la sera prima di intraprendere il suo viaggio, e si rendeva conto che questo non deponeva molto a favore del suo stato mentale. Non credeva di averlo fatto, pensava di avere saggiamente resistito alla tentazione di raccontare qualcosa di grande o portentoso. Ora si sentiva in dovere di fare una telefonata a Sarah, per comunicarle che stava bene, ma si rese conto che sua moglie non aveva alcun motivo per sospettare diversamente. Il suo silenzio sarebbe stato soltanto un’ulteriore prova a supporto della scuola di pensiero «Tom è uno stronzo». Lui voleva comunicarle la sua scoperta. Doveva dirlo a qualcuno, e una delle intuizioni decisive avute durante la sua esperienza nella foresta era stata che lui teneva ancora molto a Sarah. Per prima cosa non era obbligato a dirle per quale ragione se ne era andato in giro in mezzo ai boschi: poteva dire semplicemente cosa aveva scoperto. Il problema era che, mentre cercava di prolungare la sensazione che aveva provato nella foresta, e cioè il fatto di essere in pericolo, ma di valere qualcosa, la sua notizia appariva compromessa.

Senza quella notizia non c’era motivo di chiamare «casa» e niente di nuovo da dire. E poi in cosa sarebbe consistito, in definitiva? Quella cosa che tutti conoscono e che in realtà dicono che non esiste? Quella stupida cosa enorme e pelosa che si è sempre rivelata una pagliacciata? Io l’ho vista. Mi sono trovato a tu per tu con una bestia mitologica. Era in piedi sopra di me e io ho respirato il suo fiato terribile. Almeno… credo di averlo fatto — mentre ero sbronzo, fuori di testa, mezzo addormentato e a un passo dal lasciarci le penne. E poi ho visto un’impronta. O magari no, e a dire il vero ho sentito delle voci per tutto il tempo. Ecco cosa c’è di nuovo. PS. Ti amo.

Avrebbe immediatamente riconquistato il suo rispetto. Probabilmente avrebbe buttato giù il telefono per raggiungerlo seduta stante e per stare di nuovo con lui. «Il mio coraggioso esploratore. Il mio… stupido idiota del cazzo».

No. Quello che lei sapeva già di lui era negativo, ma non quanto quello che avrebbe potuto scoprire un giorno. Per avere qualche speranza di resistere, una speranza qualsiasi, le cose avrebbero dovuto tornare al loro posto a partire da quel momento. Sua moglie avrebbe dovuto credere alla sua parola contro quella degli altri. Non poteva chiamarla in quel momento, dando l’impressione di essere un pazzo. Non voleva nemmeno mandarle un messaggio scritto. Quando si fosse deciso a comunicare di nuovo con lei, avrebbe dovuto essere l’inizio di un sentiero in salita. Ma per quanto a lungo rimanesse sul balcone, non riuscì a scoprire da dove potesse partire.

La macchina percorse un piccolo cerchio nel piazzale e si fermò proprio al centro. La portiera del conducente si aprì quasi immediatamente e un uomo ne uscì. Era un po’ più alto della media, aveva capelli castani in ordine e l’aria di uno di città.

Alzò lo sguardo verso il balcone e fece un piccolo cenno. «Lei per caso è Tom Kozelek?»

Tom lo squadrò per un attimo. «Sì,» disse alla fine. «Chi è lei?»

L’uomo sorrise. «Niente male, eh? Ho fatto un sacco di strada a rotta di collo per parlare con lei, ed eccola qui.»

«Okay,» disse Tom. «Ma lei chi è esattamente?»

L’uomo tirò fuori dal portafogli un biglietto da visita e lo mostrò. Era troppo lontano perché Tom potesse leggere le parole, ma il logo gli sembrò familiare.

«Sono uno che vuole sentire la sua storia,» disse. «Ora, devo venire su da lei o mi permette di offrirle una birra?»

Alle sette e un quarto Al Connelly era ancora seduto alla sua scrivania nella stazione di polizia. Non c’era una ragione per essere lì: Phil aveva smontato, ma l’altro vice, Conrad, stava ammazzando il tempo lì fuori. Connelly avrebbe potuto già essere a casa, ma la verità è che anche là non c’era granché da fare. A ogni modo, era in procinto di alzarsi e andarsene quando bussarono alla sua porta. Alzò lo sguardo e vide Melissa Hoffman in attesa.

«Dottoressa,» disse Connelly. «Cosa posso fare per lei?»

«Be’,» rispose, nulla. Solo che… be’, ho trovato qualcosa e ho pensato fosse meglio parlarne con lei.»

Connelly lanciò uno sguardo al bricco del caffè nell’angolo e vide che era mezzo pieno. «Vuole un caffè?»

La donna annuì e si sedette con una certa titubanza. Quasi tutti si comportavano così, indipendentemente da quanto disinvolti volessero apparire. Sembrava che desiderassero essere ammanettati seduta stante, convinti che ci sarebbe comunque stato qualche peccato che avevano dimenticato. I pochi che non davano quest’impressione erano sempre dei criminali autentici, che nel profondo di se stessi semplicemente non si rendevano conto di quello che avevano fatto.

Connelly riempì due tazze di caffè e si risedette alla scrivania, senza dire nulla.

«Okay,» disse la dottoressa. «Ho fatto qualcosa di scorretto. Quando ero qui, stamattina, per visitare il tizio delle montagne, mentre uscivo ho visto qualcosa nella sua sacca.»

«Che genere di cosa?»

«Questo,» disse e mise qualcosa sulla scrivania di Connelly. Lui lo prese, lo osservò. Sembrava una piccola manciata di erbaccia, erba secca. «Probabilmente non avrei dovuto prenderla.»

«Già, probabilmente,» disse lo sceriffo. «Che cos’è?»

«Proprio quello che vede,» rispose lei. «L’ho vista lì — in realtà era una delle tante nello zaino — e mi sono chiesta cosa fosse. Quello che avete qui è un tizio che fa affermazioni bizzarre che noi sappiamo essere false.»

«Tutto ciò è già stato chiarito,» disse Connelly agevolmente. «Abbiamo appurato che aveva fatto un po’ di confusione.»

«Oh,» disse Melissa, delusa. «Allora, forse, questa non è affatto una notizia. Ho semplicemente pensato di dover verificare; non volevo scoprire che si trattava di qualche robaccia trovata qui, e che qui avremmo potuto trovarci alle prese con drogati che spuntavano da tutte le parti.»

«È stata un’idea sensata,» disse lo sceriffo. «Quindi…»

«Quindi, ho una vicina che conosce le piante e le erbe, così le ho portato quelle per vedere se riusciva a dirmi qualcosa.»

«Si tratta per caso di Liz Jenkins?»

Melissa non riuscì a nascondere il proprio imbarazzo. «Sì.»

«Conosce a fondo le erbe, lo so. A dire il vero, se ne ha l’occasione, dovrebbe trovare un modo per farle capire che sarebbe il caso di essere più discreta nell’uso di una di queste erbe. Lo stesso vale per il suo fidanzato.»

«Lo farò,» disse Melissa. «E so anche di questa storia, ed è in parte per questo motivo che mi sono rivolta a lei.»

«Ah sì?»

La dottoressa arrossì. «Sì. Ho pensato che sarebbe stata in grado di riconoscere il genere di cosa che la gente potrebbe fumare.»

Connelly sorrise. «Mentre lei non saprebbe nemmeno da che parte cominciare.»

«Esattamente.» Melissa piegò la testa e ricambiò il sorriso, pensando come già le era accaduto in passato che Connelly fosse migliore e un po’ più intelligente di quanto la gente riteneva. «Posso continuare?»

«Non sto nella pelle. Le ha detto cos’era?»

«In realtà si tratta di due piante.» Melissa appoggiò un pezzo di carta sul tavolo e lo spianò in modo che entrambi potessero leggere — o cercare di farlo — la scrittura barocca di Liz. «Se osserva da vicino, può notare che su uno degli steli sono rimasti dei resti di piccoli fiori, che la prima volta non avevo notato. Appartengono alla famiglia della Scutellaria laterifolia, detta anche berretto dei quaccheri.»

Si allungò in avanti per estrarre dal mazzo un altro pezzo rinsecchito che a Connelly appariva indistinguibile dagli altri. «E quest’altro è un esemplare di Valeriana officinalis, o valeriana. Dunque. La Scutellaria cresce in tutti gli Stati Uniti e nel sud del Canada, non è particolarmente rara. La cosa interessante, però, è che Liz ha detto che un gruppo chiamato «gli Eclettici», nel diciannovesimo secolo, la usava come sonnifero o sedativo, per curare l’insonnia e la tensione nervosa.»