«Ma io non ho sentito…»
«Io ti credo, ma gli altri non lo faranno. Avevi anche l’impronta di un piede, ma quella ormai sarà sparita. Inoltre c’è l’inconveniente di quella Anders con i suoi stupidi scarponi.»
«Ma è proprio cosi,» disse Tom. «È tutto quello che ho.»
«Veramente no.» Henrickson scosse la testa. «No, a’ giudicare da quello che hai detto. Potresti sapere qualcosa senza esserne consapevole. Domani andremo a dare un’occhiata.»
Tom sembrava un po’ confuso. «Fidati di me,» disse l’uomo, ammiccando.
Connelly stava lasciando la stazione di polizia. Una rapida conversazione telefonica con Patrice Anders aveva chiarito la scoperta di Melissa: era stata lei a mettere quelle erbe nello zaino. Ora la situazione era di nuovo chiara e definita. Lo sceriffo valutò l’idea di andare da Frank per una soda e qualche stuzzichino, ma decise che era stata una giornata lunga e che una birra davanti alla televisione sarebbe andata bene lo stesso. La sua casa era grande e vuota, ma tranquilla e il telefono non avrebbe squillato.
Non sembrava affatto male.
Capitolo tredici
Dieci minuti dopo la sua conversazione telefonica con lo sceriffo Connelly, Patrice si trovava ancora nel piccolo vano cucina di casa sua. Era solo uno striminzito angolo di un metro per due ricavato dalla zona soggiorno, con una finestra che dava sugli alberi. In quel momento la donna stava guardando fuori, anche se, a dire il vero, non stava osservando nulla.
Nulla che qualcun altro avrebbe potuto vedere, a ogni modo.
Bill e Patrice Anders avevano vissuto quasi tutta la loro vita a Portland. Quando i ragazzi se ne andarono di casa verso la metà degli anni ’80 i genitori cominciarono con qualche incertezza a cercare di ricordarsi come si passasse il tempo libero, come fossero stati dei dipendenti di uno zoo abbandonato, congedati dopo che gli animali erano stati lasciati Uberi di tornare nella giungla. Iniziarono a lasciare la città nei weekend, divertendosi in un modo un po’ insulso, ma fu solo quando scoprirono Verona che tornarono ad avere i loro orizzonti.
Poco più che una gobba sulla 101, la strada costiera che scendeva dall’estremità dello stato che dava sul Pacifico, Verona era costituita da una manciata di strade, qualche edificio di legno, una drogheria e non molto altro: c’erano buone probabilità di attraversarla e lasciarsela alle spalle senza che venisse in niente di fermarsi. Ma se per caso qualcuno, bighellonando verso sud, avesse tenuto gli occhi aperti uscendo dal paese, proprio dopo il ponte che sovrastava l’insenatura, avrebbe visto un cartello con l’indicazione «Redwood Lodgettes». Un’insegna trasformata dal calore del sole in un vecchio pezzo di legno, puntato verso gli alberi. Patrice lo aveva notato e si erano fermati per dare un’occhiata. Quella decisione improvvisa cambiò il resto della loro vita.
Le Redwood Lodgettes erano un pezzo di storia in via di estinzione, una località vacanziera da vecchia scuola che segnava la fine di una mattinata di viaggio e l’inizio di un pomeriggio di nuotate, urla, corse in mare e ritorno con la sabbia e gli aghi di pino sotto i piedi: mamma era felice perché il posto era carino e c’era anche modo di lavare gli indumenti; papà era contento perché aveva rispettato il budget; i bambini, consci, anche se vagamente, di tutto questo, si crogiolavano nel calore di una famiglia, per una volta unita da una gioia semplice. Quattordici bungalow erano sparsi su un paio di acri di terreno alberato, circondati dal lato da un litorale roccioso e dall’altro dalla piccola baia. In quella prima visita Bill volle fare uno schizzo della loro casetta (la numero 2), tanto era interessato dal modo in cui era stata messa insieme: salotto, angolo cottura, camera da letto, bagno e dispensa, che erano stati ottenuti occupando ogni centimetro abitabile di una robusta costruzione in legno di nemmeno quaranta metri quadri. Una stufa a legno nel salotto rendeva la casa il posto ideale per le frizzanti serate primaverili; la camera da letto era accogliente nelle fredde notti invernali. La veranda che circondava la casa era il posto dove si viveva in estate e in autunno, ascoltando gli uccelli e il mormorio distante dell’acqua, chiedendosi cosa ci sarebbe potuto essere per cena, tenendo un libro aperto in grembo per legittimare il non far niente, incluso il leggerlo.
Quella sera ripercorsero il ponte ed entrarono in paese. Trovarono un bar, sistemato su palafitte nella baia, che aveva tavoli da biliardo e musica ad alto volume che suonava loro familiare e più in alto, sulla collina, un ristorante buono come quelli di Portland. Bevvero vino e birra del luogo e rimasero affascinati come non era accaduto loro da molto tempo. Alla loro età realizzare un incantesimo non era una cosa semplice. Verona ci riuscì. Bill e Patrice scoprirono di respirare meno affannosamente, tenendosi per mano sulla spiaggia e sorridendo alle altre persone che passeggiavano; osservavano il mare e percepivano la curvatura della terra. Scelsero gli stessi aperitivi per tre sere di seguito. La coppia di anziani che dirigeva Kedwood Lodgettes — i Willard — aveva cominciato a chiamarli per nome già il secondo giorno. Quando arrivò il momento di andarsene, Patrice dovette essere quasi portata via a forza, non prima di avere strappato a suo marito la promessa che sarebbero ritornati appena possibile.
La decisione fu presa lì su due piedi. Quello era il posto dove sarebbero venuti quando avrebbero avvertito la necessità di allontanarsi dal mondo.
Passarono dieci anni durante i quali vi tornarono venti volte, forse venticinque. I «Willard si ritirarono nel ’94, ma non cambiò molto: Patrice e Bill continuarono ad approdare alle Lodgettes come quegli uccelli marini che due volte l’anno vengono a riva seguendo la marea. Una volta riuscirono quasi a portare i loro figli, ma naufragò tutto. Non che ci fosse nulla di insolito. Una volta in cui parlavano di Josh e Nicole, Bill descrisse il rapporto che avevano con loro come «cordiale», e le cose stavano proprio in questi termini. Si volevano bene, su questo non c’erano dubbi, ma in maniera estremamente controllata. Nessuno impazziva d’affetto. I contatti telefonici erano regolari, le visite cordiali; si incontravano per le feste comandate, quando si scambiavano regali ben scelti e ognuno dava una mano in cucina. I loro figli lavoravano sodo. Se le loro carriere erano più importanti delle visite in famiglia, allora non c’era granché da fare. Bill e Patrice andarono lo stesso a Verona. Era bello avere un posto solo per loro, senza doversi preoccupare se altri lo trovavano accogliente. Non riproposero più un viaggio di famiglia.
Poi, quando si trovarono a Verona per un weekend alla fine di agosto, capitò loro di scambiare due parole con i nuovi proprietari. Non avevano un rapporto stretto — diversamente dai Willard, Ralph e Becca sembravano dimenticarsi di loro dopo ogni soggiorno, e ogni volta la confidenza doveva ripartire da zero — ma capirono subito che c’era qualcosa sotto. C’era un’aria di smantellamento. Lo chiesero, e Ralph lo confermò senza nessun evidente rimorso: quella era l’ultima estate delle Lodgettes.
Sentendo questo, Patrice avvertì un colpo al cuore e la sua mano salì alla bocca. Ascoltava a malapena mentre le veniva detto che quell’attività non rendeva abbastanza soldi, anche se la località stava acquistando in popolarità, dato che Cannon Beach, Florence e Yachats stavano diventando troppo care e la gente cercava più avanti lungo la costa piccoli angoli romantici. Questo non stava aiutando le Lodgettes. I giovani non volevano vecchie baite di legno, ma lettori DVD e succhi biologici. La «stone therapy» era un requisito fondamentale. Le Lodgettes erano state costruite in una zona di grandissimo pregio e una catena di hotel in quel luogo sarebbe stata una scelta immediata per qualcuno che aveva il fiuto per gli affari. Più tardi Bill borbottò a Patrice che se Ralph e Becca si fossero sforzati di ricordarsi degli ospiti tra una visita e l’altra, allora tutto sarebbe stato diverso. Ma le cose stavano così, e un investitore di San Francisco aveva fatto un’offerta che loro non erano nelle condizioni di rifiutare.