Poi lavorai con le singole foto. Ce n’erano una marea. McCain le aveva raccolte tutte in una grande cartella. Riversai tutto in un visualizzatore e cliccai alcuni esempi a caso. Le immagini mostravano Jessica mentre faceva le stesse cose riprese nei video, ma niente sesso. Era nuda o parzialmente nuda, intenta a leggere una rivista, o a mangiare, o ancora seduta al computer. La si vedeva mentre beveva caffè o un Jack Daniel’s. Mentre dormiva, mentre fumava, mentre fissava il vuoto. L’effetto complessivo era strano e cominciai a comprendere il perché del fascino che Jessica esercitava su McCain. Anch’io ero esperto di webcam, avendo passato alcune lunghe ore osservando gli angoli delle strade di New Orleans o la riva del Lago McDonald, o immagini dell’esterno dei negozi di computer sulle strade principali di città non identificate del Midwest. Mi ci era voluto un po’ per capire che cosa ne ricavassi. Non guardavi nella speranza di cogliere qualcosa di eccitante. Anzi, il contrario. Guardavi perché proprio la mancanza di qualsiasi attività percettibile, di un soggetto, rendeva la scena più reale. Se ti concentri su qualcosa in particolare, tutto quello che vedi è qualcosa che accade: il momento, l’evento, e questo ti porta a trascurare la lunga e lenta marea di avvenimenti che lo sommerge. Se non guardi nulla, allora vedi tutto. Cogli la cosa per quel che è.
Questa miriade di immagini casuali di Jessica produceva lo stesso effetto. Non una sola immagine era studiata, e anzi in molte lei era fuori campo o fuori fuoco. L’effetto finale era quello di non mostrare nulla in particolare, e quindi di rivelare tutto. La nostra visione della sua vita diventava simile alla sua, una serie infinita di momenti accidentali, insignificanti e, in definitiva, piuttosto noiosi. La collezione di McCain su Jessica rappresentava la realtà della donna molto più chiaramente di qualsiasi altra cosa io riuscissi a immaginare, intrappolandola e celebrando il suo trionfo sotto forma di pixel. Quei quindici megabyte erano la sua leggenda.
Fu solo dopo aver preso visione della sua vita prima dell’evento, che studiai le polaroid che Nina mi aveva lasciato. Mostravano l’appartamento di Jessica il giorno in cui la polizia di Los Angeles vi aveva trovato il cadavere. Anche queste erano immagini piatte, vuote ma non erano insignificanti. Ogni millimetro quadrato diceva qualcosa di piuttosto immediato: proprio la loro esistenza dichiarava che la ragazza che era vissuta in quello spazio era morta, ed era esattamente per quel motivo che io avevo voluto vedere prima le altre.
Le osservai attentamente per un po’. Poi, tornai alle immagini iniziali dell’hard disk, le sistemai in ordine cronologico e le riguardai.
Ci volle molto tempo prima che notassi qualcosa.
«Lo vedi?»
Nina annuì. «Non c’è nessun’altra immagine che lo mostri più chiaramente?»
«Meglio di così non può venire. L’ho ingrandita, ma…» Ripristinai una finestra che avevo nascosto dietro la prima. «Non siamo in un film e quindi l’ingrandimento fa piuttosto schifo.»
Nina si protese in avanti e osservò lo schermo. Stava guardando l’immagine sgranata di Jessica, inquadrata dal petto in su, sdraiata sul letto. Al di sopra del suo, si vedeva il volto di un uomo.
Nessuno di noi due era interessato a lui. La polizia di Los Angeles si era mossa in fretta: avevano già fatto stampare le immagini dei tre uomini immortalati nei filmati di McCain e le stavano mostrando alle amiche di Jessica, partendo da quelle del Jimmy’s. Il barman del locale aveva detto che nessuno di loro assomigliava al tizio con il quale lui aveva visto la ragazza la sera in cui era stata uccisa. Questa era una delle informazioni che Nina aveva acquisito prima di ritornare a casa a metà pomeriggio. Quello che stavamo osservando invece era il tavolino accanto al letto, che era visibile nello spazio vuoto tra i volti sfocati, il petto di Jessica e il suo amico del momento. Sul tavolino c’erano una lampada, una radio-sveglia da quattro soldi, una piccola pila di libri, i cui dorsi vistosi suggerivano che si trattava di testi di auto-stima, tre tazze da caffè e una piccola cornice portafoto.
Nina prese la polaroid che mostrava la camera da letto e la scrutò. «Hai ragione,» disse. «Qui non c’è, e io non ho visto nulla di simile nell’appartamento.» Non appena avevo notato la discrepanza, avevo telefonato a Nina per descriverle la cornice, e lei era ritornata nell’appartamento di Jessica per cercarla. «A quando risale questo scatto?»
«Poco meno di una settimana prima che morisse.»
«Ipotizzando che la data sulla fotografia sia esatta.»
«Lo è. La data di creazione del file lo conferma.»
«Una settimana. Quindi avrebbe potuto spostarla lei da qualche parte nel frattempo.»
«Ma tu non l’hai trovata. Se una fotografia è così importante da tenerla accanto al letto, non decidi da un momento all’altro che non la vuoi più in casa.»
«Sì, se ritraesse un tuo ex fidanzato.»
«Giusto. Ma guarda questa.» Passai a una terza immagine che mostrava solo la cornice sul tavolino accanto al letto. «Questa è ingrandita ancora di più. Ho usato un programma di interpolazione, che essenzialmente analizza il colore di ogni pixel, lo compara con quelli circostanti e cerca di creare un’immagine ingrandita coerente. Quando questa tecnica è applicata a immagini a bassa risoluzione come questa il risultato è uno schifo, ma mostra comunque qualcosa di interessante.» Indicai il centro dell’immagine. «Anche se non si riescono a mettere bene a fuoco i dettagli, qui si vedono chiaramente due teste.»
«Esattamente. Jessica più un precedente fidanzato.»
«Non credo. Qual è il colore sopra le loro teste?»
«Grigio.»
«In altre parole il colore di capelli che hanno generalmente le persone anziane. Forse sono i suoi genitori.»
«Credi?»
«A quanto pare Jessica non tornava a casa molto spesso, ma mi sarei molto sorpreso se in casa sua, da qualche parte non ci fosse stata un’immagine di famiglia, una bella foto di mamma e papà, oppure — se lei avesse avuto un problema con uno di loro o entrambi — di qualche fratello o sorella idealizzati, o di una nipote preferita. Una testimonianza dell’esistenza di una famiglia. Le ragazze sono fatte così.»
«È proprio così. Ne hai trovata una qui? Che so, nascosta tra il lavoro di cucito e le lettere d’amore per Justin Timberlake?»
«No,» risposi. «Ma non ho cercato a fondo e tu non sei una ragazza.»
«Giusto, sono una donna inquietante.»
«Non solo,» dissi. «Ma quello che voglio dire è che dall’appartamento di Jessica è sparito qualcosa.»
«Pensi che l’assassino sia andato lì?»
«Sì, e questa è la prova.» Cliccai due volte su un altro file, uno dei fermo-immagine che McCain aveva archiviato nella cartella. Mostrava Jessica stravaccata sul divano in una posa non particolarmente elegante. Aveva un pigiama, blu chiaro, con piccoli fiori bianchi e rosa. «Hai detto che è stata ritrovata…»
«È quello. È lo stesso pigiama. Cristo, hai ragione. È stato lì.»
«Penso che l’abbia presa di mira — che le abbia dato la caccia, visto che è così che lui probabilmente vedeva la cosa — e abbia passato un po’ di tempo nel suo appartamento per completare il piano che doveva portare alla sua uccisione. Ha preso il pigiama e credo che abbia sottratto anche un souvenir. Doveva essersi reso conto che quelli erano i genitori di Jessica e ha deciso di toglierle qualcosa che le fosse caro, qualcosa che per lei aveva un significato.»