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«E lei non se ne sarebbe accorta?»

«Dimmi un oggetto in questa casa che tu vedi tutti i giorni. E dai un’occhiata alla foto: il tavolino è incasinatissimo. Inoltre…»

«Ma che mi dici del pigiama? Uno non può non accorgersene se gli sparisce.»

«Era proprio quello che stavo per dire. Con ogni probabilità l’uomo è stato li nella giornata precedente la notte in cui l’ha uccisa.»

«Ma allora perché non aspettarla e ucciderla in territorio amico?»

«Perché quella non era casa sua. Lo sai come ragionano questi individui. Desiderano cesellare l’evento: deve realizzarsi secondo i loro piani.»

«Questo ci aiuta in qualche modo?»

«L’assassino ha scoperto dove lei viveva. Come? Questo vuol dire che almeno in un’occasione può averla vista vicino al suo appartamento. Il che significa che era dovuto entrare. Di nuovo, come?»

«La polizia di Los Angeles ha già interrogato i vicini e nessuno ha visto niente.»

«Ma come ha fatto a scoprire dove viveva?»

«Ward, tu hai un’ottima vista, ma non sei un poliziotto. È probabile che l’abbia semplicemente seguita di ritorno da un locale. Mi dispiace, ma anche se hai ragione questo non ci dà nessun elemento aggiuntivo per andare avanti. L’uomo ha preso il pigiama e una foto. Forse. Capirai! Lo scriveremo sul mandato, proprio sotto la segnalazione dell’omicidio.»

Mi voltai verso di lei, innervosito, ma lei aveva l’aria stanca e io lasciai perdere quello che stavo per dire. «È curioso che tu e John non siate riusciti ad andare d’accordo, perché siete entrambi persone ragionevoli e di cosi ampie vedute.»

Nina sorrise. «Senti… ti dirò come stanno le cose.» «Grazie,» dissi. «Mi sento legittimato al di là di ogni mia speranza. E ora andiamo a liberare un po’ del tuo cibo dal negozio.»

«Lascia perdere. Andiamo piuttosto in un posto dove lo cucinino anche.»

Finimmo a santa Monica, in un ristorante italiano sulla promenade. Mangiammo in fretta e poi ci spostammo nella zona del bar dove rimanemmo più a lungo. Nina aveva un bell’aspetto con un bicchiere di vino in mano. Sembrava fatto apposta per stare lì. Le raccontai il poco che avevo fatto negli ultimi mesi e quando il vino cominciò a fare effetto, le dissi anche quanto mi mancassero Bobby e i miei genitori; lei sorrise comprensiva e non disse niente per migliorare le cose. Mi resi conto che non sapevo quasi nulla di lei e scoprii che era cresciuta in Colorado, che aveva frequentato il college a Los Angeles e non molto altro. Mi raccontò di una certa vecchia amica di scuola che l’aveva chiamata e con la quale si sarebbe dovuta incontrare e concordammo che il passato era un altro territorio che il movimento delle placche tettoniche del tempo faceva allontanare ogni anno di più. Arrivati a metà serata il locale si affollò e più di una volta Nina fulminò con lo sguardo le persone che cercavano di occupare il mio posto durante le mie occasionali pause-sigaretta all’esterno. Con Nina uno sguardo basta e avanza.

Con l’aumentare del mio stato di ebbrezza le persone intorno a me sembravano diventare più rumorose e odiose. Le chiacchiere riguardavano il mondo del cinema (naturalmente), i soldi, la salute, il peso-forma, la moda. Più era futile l’argomento e più le persone davano l’impressione di volerlo affrontare a voce alta, come una preghiera infinita agli dèi del destino. Diventai sempre più nervoso, al punto che Nina finì per starsene seduta in silenzio mentre io sbraitavo. La moda mi ha sempre fatto innervosire. Quest’estate indosseremo tutti il rosso porpora, vero? E chi lo dice? Quando vediamo un bikini fatto di quadratini di plastica colorata, perché facciamo finta che lo indosserà chiunque? Perché, ruggii verso Nina, questo è quello che il capitalismo fa per mettersi in mostra. È la nostra cultura che sta tirando fuori il suo cazzetto moscio. «Ehi voi, ombre nel caos non-anglosassone — ammirate la nostra capacità di surplus. Se riusciamo a buttare via tempo e sforzi su cazzate così inutili, allora immaginate quanto oro, armi e grano dobbiamo aver messo da parte, che cittadini felici e ben nutriti della ‘Il Nostro Mondo S.p.A.’ dobbiamo essere.» Il problema è che queste persone non sono felici e alcune di esse non sono nemmeno ben nutrite — ma nessuno sa o si preoccupa di ciò che accade dietro quei tabelloni pubblicitari che invitano a seguire un certo stile di vita, perché per le persone che contano la vita non fa altro che migliorare. L’intero paese si sta trasformando in una sorta di rifugio segreto infarcito di muffin dove tutti leggono libri su come volersi più bene, come se quello potesse essere anche lontanamente possibile. Hanno trasformato fredde e fumose caffetterie in posti dove quelli sicuri di sé vanno a leggere l’iBook alla ricerca di storie che provino quanto sono sensibili; hanno trasformato bar stantii e inquietanti in luoghi che sembrano le Aree di Ricreazione del Personale delle megasocietà più lungimiranti. Recentemente ero stato in un bar che profumava di incenso — non è assurdo? Non puzzare di fumo fa già schifo, ma odorare di lavanda speziata… Non si può pensare che dentro sia più fresco di fuori, non riescono a capirlo? Non puoi smettere di avere paura solo fingendo che tutto ciò che ti spaventa non ci sia.

Parte del problema, continuai — e ora la mia voce era irritante quanto quelle intorno — è che io mi ricordavo un mondo in cui nessuno correva. Ora correre è una nuova forma di beneficenza universale. Correre è saggio. Correre è il bene supremo, il nostro cammino rituale verso il consenso e la benevolenza degli dèi. Corri e tutto andrà bene. Se fossimo noi a guidare la Chiesa Cattolica, la santità verrebbe assegnata in base al tempo passato dal candidato con le Nike ai piedi. «Certo, Padre Brian ha fatto opere buone, salvato vite e così via, ma quali erano i suoi intermedi sul chilometro? Padre Nate? Lascia perdere. Quello lì non ha mai corso mezza maratona in vita sua.» Abbiamo perso ogni senso delle proporzioni, qualsiasi idea di ciò che è ragionevole o sensato, mentre nel mondo i paesi che non hanno il tempo o il lusso per dedicarsi a queste stronzate si incazzano sempre di più con noi perché ci comportiamo come se fossimo i padroni di tutto. Ma chi se ne frega, no? «C’è una nuova dieta che sta scalando le classifiche! Jennifer Lopez si è comprata qualche nuovo gioiello — guarda come è carina! A chi cazzo importa cosa succede in quei posti di merda dove non parlano nemmeno l’americano? La vita è fantastica! Stappate un Zinfandel decaffeinato!»

Rimasi senza fiato e senza bibita esattamente nello stesso momento. Notai che le persone giovani dei tavoli vicini mi stavano tutte fissando come se avessi dichiarato nulla e non valida la teoria dei tre stadi.

«Andate affannilo,» gli suggerii a voce alta. Tutti si voltarono dall’altra parte.

Persino Nina mi guardava con un sopracciglio sollevato.

«Il Prozac non ti fa granché bene, vero?»

«Il mondo è fottuto,» mormorai imbarazzato. «E chiunque ci viva è fottuto. Sbrigati a venire, Armageddon!»

«Yeah, mi ricordo come ci si sente a quindici anni,» disse. «Non ti agitare, passerà.» Si alzò. «Dai, Ward. Io sono mezzo ubriaca, tu sei sbronzo marcio. È ora di andare a casa.»

Vidi la carta di credito scivolare sul tavolo e mi resi conto che in qualche momento, negli ultimi quindici minuti, lei aveva pagato il conto.

Scesi dal mio sgabello e la seguii fuori dal ristorante, sentendomi un idiota. E anche qualcos’altro.

Quando trovammo un taxi e fummo trasportati a casa di Nina l’alcool in circolo nel mio corpo aveva ormai compiuto la sua opera, facendomi sentire esausto. Rimanemmo piacevolmente in silenzio per la maggior parte del viaggio. Piantai un casino per riuscire a pagare io la corsa e poi inciampai pesantemente nello scendere dall’auto. Probabilmente Nina aveva ragione nel dire che gli uomini raggiungono un grado di immutabilità rispetto al tempo: non aveva alcuna importanza quanto il mio corpo ogni tanto si sentisse invecchiato, quello dei quindici anni sembrava un soffitto di vetro per il mio livello di sofisticazione.