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Il peggio non deve per forza arrivare alla fine, quello era chiaro. La fine doveva essere silenziosa e insignificante. Fino a che c’era qualcuno cui importava, la fine non doveva essere affatto così malvagia. Allora perché aspettare?

Quando arrivò in città parcheggiò. Fece a piedi il tratto fino alla destinazione. Era in continuo movimento, perché restava la cosa migliore da fare. Ancora adesso, quella parte del processo era strana e ingovernabile e un uomo inferiore avrebbe potuto considerare l’idea che questo accadeva perché l’impulso non proveniva dalla sua mente cosciente. Ma lui no. Lui sapeva che tutto aveva un senso, che a volte questo è ciò per cui siamo fatti.

Camminò. Rimase in attesa per la notte. Aspettò, in modo che qualche altra persona speciale non avrebbe più dovuto aspettare. Certo, egli agiva per ragioni personali, e per benefici di portata più vasta, ma questo non impediva che fosse la cosa giusta anche per lei. Tutto sarebbe stato nuovo e tranquillo.

Era veramente una situazione in cui non c’era nulla da perdere.

Capitolo diciassette

Le porte dell’ascensore si aprirono. Dentro c’era Burt, che accennò un sorriso e arretrò per fare spazio a Katelyn, ma poi si rese conto che doveva uscire con il suo ingombrante carrello e che questo doveva farlo prima, indipendentemente dai dettami che gli imponeva il suo personale codice di cavalleria. Esitò, indietreggiò e avanzò di qualche centimetro, poi levò gli occhi al cielo e alzò le spalle. Questo, o qualcosa di simile, accadeva praticamente ogni notte.

Con aria di scusa sferragliò fuori e si voltò per tenere le porte aperte. «Sta andando a prendere i menu, signora?»

«Esatto, Burt. E la tua notte come va?»

«Sta finendo.»

Burt era l’unico impiegato di colore del Seattle Fairview, a parte il tanto decantato Big Ron, il portiere del turno diurno. A Katelyn piaceva Burt: aveva il doppio degli anni di chiunque altro nel libro paga e lavorava il doppio, anche alle tre del mattino. Se capitava di incontrare Burt, si poteva essere sicuri che stava facendo qualcosa. L’idea di vederlo con le mani in mano era inconcepibile.

Dopo essersi sincerato che la donna era al sicuro dentro l’ascensore, Burt strizzò un occhio e spinse il carrello, in cerca di qualcosa da sistemare, da riattaccare o da staccare. Katelyn lo osservava mentre le porte si richiudevano. Era anche lui un lavoratore notturno e qualcosa le diceva che doveva provare la stessa sensazione di essere in una posizione privilegiata. Non glielo aveva mai chiesto perché, be’, perché non si fa. Oppure era troppo semplice? Credeva forse che una simile osservazione andasse al di là dei limiti del loro rapporto di lavoro? E se era così, perché? Diceva qualcosa di sconveniente su di lei? I rapporti gerarchici erano per lei più importanti di quanto credesse? Lo stava trattando con condiscendenza senza rendersene conto, non prendendolo sul serio perché era anziano o…

Cristo, ormai era troppo tardi.

Sapeva che questo non era un lavoro di competenza del direttore di notte. In alcuni alberghi era il fattorino a farlo, era l’ultimo incarico prima che staccasse: oppure, se c’era il servizio in camera ventiquattr’ore su ventiquattro, qualche volta il cuoco notturno inseriva la segreteria telefonica nell’ora morta, intorno alle quattro del mattino, e andava a prendere i menu lui stesso, molto probabilmente girando per i corridoi con i pantaloni calati, a giudicare dai cuochi notturni che aveva conosciuto. Una camera chiedeva che i menu venissero appesi alla porta alle sei, non alle due, e quello sarebbe stato il primo incarico del giorno per il personale che poi avrebbe portato quelle stesse colazioni ai piani superiori. Quello le sembrava sbagliato. Potevi pensare che la colazione fosse il primo evento del nuovo giorno, ma non era così. Non per i clienti. Era l’ultima cosa. Ritornavano scorbutici da una serata passata in una città che non conoscevano, o con un’espressione stralunata se facevano più tardi. A Katelyn piaceva immaginarli mentre si toglievano le scarpe e si sedevano sobriamente al piccolo tavolo di cui era dotata ogni stanza, oppure distesi sul letto in preda al singhiozzo, afferrare una penna a sfera e concentrarsi per annotare la loro prenotazione. Quando eri in vacanza, o fuori per lavoro, l’arrivo della colazione era di importanza fondamentale. Ti ricordava chi eri — o chi credevi di essere, almeno, nel bel mezzo della notte e con il vino che ti usciva dalle orecchie.

Katelyn la pensava così. Aveva cercato di spiegarlo a uno dei ragazzi della reception, e quello l’aveva guardata come se avesse parlato cinese. Alcuni di loro avevano quell’atteggiamento qualsiasi cosa lei dicesse. Raramente i direttori di notte erano donne. Forse questo dipendeva dalle responsabilità legate alla funzione, forse dal fatto che di notte dovevano affrontare strane situazioni — spiegare a chi non era cliente che non c’era un servizio di taxi verso i sobborghi; dissuadere occhialuti uomini d’affari dal portare in albergo donne che erano troppo palesemente delle puttane; trovare qualcuno che pulisse l’ascensore centrale dal vomito (la gente vomita sempre in quello centrale; nessuno sapeva il perché, nemmeno Burt). La maggior parte dei direttori di notte non aveva prospettive di carriera. Erano come dei camerieri a vita, fuori passo con il mondo. Arrivavano alle nove, o quando quel particolare hotel giudicava che l’attività fosse scemata, si sistemavano nell’ufficio sul retro e bevevano caffè. Se erano fortunati, continuavano a farlo fino al sorgere del sole, sacrificando di tanto in tanto un minuto per controllare che la manutenzione, le pulizie e il riapprovvigionamento venissero fatti da persone che prendevano uno stipendio che era la metà del loro. Se c’era un incendio comandavano a bacchetta le persone fino a quando il problema non era risolto, dimenticato o soppiantato, quindi tornavano a sfogliare le riviste. All’alba si dileguavano come la rugiada, tornavano al loro appartamento o casetta per dormire durante il giorno come vampiri paffuti.

Katelyn non era così. Mentre l’ascensore saliva nella notte, la vista di se stessa riflessa negli specchi avvolgenti la rassicuravano di essere giovane, femminile e attraente. Okay, non giovane. Cancelliamolo. Aveva una pelle delicata, però, e capelli che richiedevano pochissimi ritocchi di colore. Aveva un naso deciso. Con il suo vestito antracite aveva un’aria professionale. La sua presenza lì non era necessaria. Forse non era opportuna. Potevi entrare a far parte della direzione di un albergo senza avere alcuna esperienza, ma aveva già lavorato abbastanza per sapere che niente valeva quanto la pratica effettuata sul campo. Durante le ore del giorno un hotel assomigliava a un enorme motore, mosso dal suo principio interno. Certo, non appena oltrepassavi il bancone della reception e superavi un paio di quelle porte con la scritta «Privato», ti rendevi conto che non era proprio così. Realizzavi che un hotel era il risultato della collisione frontale di migliaia di elenchi di cose «da fare» portate a compimento a diverse velocità; che era un computer di carne e pietra su cui giravano diciassette programmi diversi in contrasto tra loro (alcuni nuovi e funzionanti, altri vecchi e pieni di difetti), e che un blocco totale del sistema era sempre dietro l’angolo. Sussisteva tuttavia una certa inerzia, la sensazione di un ecosistema che tirava avanti solidalmente, una squadra di staffettisti che conduceva una gara senza fine.

Di notte era diverso. Il sistema nel suo complesso andava in stand-by e tu diventavi più consapevole dei singoli ingranaggi: i tavoli, le sedie, le brillanti lampade a muro che regalavano riposo e luce soffusa solo a se stesse. Gli ascensori che potevano decidere di punto in bianco di andare su e giù, senza nessuna ragione, sferragliando e sibilando nelle ore piccole. Ma soprattutto, l’edificio stesso, con i suoi lunghi corridoi e gli imponenti archi, percorsi dal rumore bianco delle apparecchiature a riposo. Gli hotel pullulano di vita. Negli hotel si discute. La quantità di azione di cui è testimone un hotel di media categoria di una città procurerebbe un esaurimento nervoso a una casa normale dopo un giorno. Nelle ore notturne l’edificio aveva un po’ di tempo per sé, per elaborare i suoi pensieri grandi e lenti. Camminare per le sale in quei momenti era come sedersi al buio insieme a un grande animale fatto di mattoni e ascoltarlo mentre respirava.