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Capitolo diciotto

Quando Nina si svegliò poco prima delle cinque, sapeva che non sarebbe più riuscita a riaddormentarsi. Lei e Ward erano rimasti in piedi ancora due ore dopo la telefonata di Monroe, per cercare di comprenderne il significato. Per quel che le era dato di capire, poteva voler dire solo una cosa: in qualche modo, da qualche parte, Zandt era riuscito a pestare pesantemente i piedi a qualcuno vicino agli Uomini di Paglia. Non erano stati in grado di arrivare a lui direttamente, così lo avevano incastrato. Per tutta la notte aveva provato a rintracciarlo, ma il suo cellulare risultava spento.

Ward si era ripreso dalla sbronza e alla fine le aveva dato un suggerimento che lei sentiva di dover prendere in considerazione: era indispensabile che lei parlasse in privato con Monroe per raccontargli alcune cose. Non al telefono, ma a tu per tu. Se intendeva cercare di convincerlo che c’era un gruppo di uomini e donne che operava dietro la facciata di quella che la gente identifica come l’America, che queste persone avevano ucciso e mentito e ora avevano preso di mira il suo ex amante, allora dovevano trovarsi dà soli in una stanza. Probabilmente era un’iniziativa che avrebbe dovuto essere presa tre mesi prima, ma — tormentati dalla paranoia e con diversi morti a carico — nessuno dei due aveva ritenuto giusto farlo.

In quel momento sembrava un errore.

Nina bevve cinque tazze di caffè mentre si concentrava su ciò che avrebbe detto, su quello che poteva essere rivelato dell’accaduto a The Halls senza far sbattere nessuno di loro in galera. Aspettò le sette, quando sapeva che Monroe sarebbe stato sveglio e in piena attività. Se fosse riuscita a raggiungerlo prima che uscisse per andare in ufficio, forse si sarebbero potuti incontrare. Mentre Nina si stava dirigendo verso il telefono, questo squillò.

Era Monroe e chiamava dall’ufficio. Le chiese di incontrarsi lì da lui immediatamente, e dal suo tono non aveva affatto l’aria di qualcuno a cui confidare un segreto.

La stava aspettando all’uscita dell’ascensore del quinto piano. Aveva il viso impietrito.

«Charles,» disse lei rapidamente, «ho bisogno di parlarti.»

Lui scosse la testa bruscamente e si voltò, incamminandosi nel corridoio. Dopo non molto aprì una porta e si fece indietro, aspettandola. Lei coprì la distanza frettolósamente ed entrò.

La stanza 623 è il classico spazio anonimo che esiste in ogni società americana di una certa dimensione. Nel campo del business era come dire «Vedete — possiamo permetterci il meglio dell’arredamento in circolazione. Niente ci fa paura». Cosa questo significasse invece nel campo delle forze dell’ordine, Nina lo ignorava. Al centro della stanza faceva bella mostra di sé un grande tavolo di legno, rifinito con una vernice lucida rossiccia e circondato dalle poltrone più costose e meno usate di tutto l’edificio. Una parete a vetri dava sul parcheggio posteriore; le altre, rivestite di pannelli fino a mezza altezza, per il resto erano nude. Dentro una cornice scadente c’era una foto non recente di qualcuno che riceveva un encomio, e nient’altro.

Un uomo in abito grigio antracite era seduto su una sedia che era stata sistemata in modo che spuntasse dall’angolo superiore sinistro del tavolo. Era di statura superiore alla media e aveva quel tipo di carnagione che su un uomo di una certa età fa pensare a una terapia a base di iniezioni. I suoi capelli erano in ordine e gli occhi blu pallido, spento. Le ciglia erano lunghe. Era senza cravatta e tutti i dettagli della sua camicia facevano chiaramente comprendere perché non ne aveva bisogno. Era sui cinquanta. Sebbene risultasse assemblato tenendo debitamente conto dei canoni estetici convenzionali, Nina lo trovò uno degli uomini meno degni di nota che avesse mai visto. Non c’era nulla che dicesse che non era un agente, ma non lo era. Sicuramente non era l’agente speciale mandato da Portland, che lei aveva già incontrato.

«Buon giorno,» disse Nina tendendo la mano.

Lui non la strinse e non si presentò nemmeno, tanto meno sorrise. Nina tenne la mano in posizione per qualche secondo e poi la lasciò ricadere. Rimase immobile ancora qualche secondo, offrendo a quell’uomo l’opportunità di smetterla di fare lo stronzo. Ma lui non la colse. Nina resse il suo sguardo per quanto necessario e poi lo distolse.

Era in grado di giocare anche lei. «Come vuole,» disse.

«Siediti e stai tranquilla,» sbottò Monroe. «Sei qui per ascoltare. Ti verrà fatta una domanda diretta alla quale ti sarà chiesto di rispondere. Altrimenti cuciti la bocca. Chiaro?»

Fu allora che Nina si rese conto che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto. Monroe aveva i suoi difetti. Aveva la tendenza a considerarsi più furbo di quanto non fosse in realtà, e di credere che ai criminali — e agli altri agenti — si potessero applicare le stesse tecniche di gestione delle risorse umane previste per i rappresentanti di commercio, ma era prima di ogni altra cosa un professionista. Tuttavia il tono della sua voce tradiva rabbia e risentimento personale.

La stava ancora fissando. «Hai capito?» «Certo,» rispose lei, allargando le mani. «Che cosa…» «Il caso Sarah Becker,» disse lui e il cuore di Nina sprofondò. Anche se si collegava a quello di cui lei voleva parlargli, questo non era il modo in cui lei contava di affrontare l’argomento. Non di fronte a qualcun altro, e soprattutto non davanti al tizio nell’angolo. Tra parentesi, perché non sedersi da un lato o dall’altro? Quell’uomo aveva fatto di tutto per farsi notare e tuttavia Monroe non l’aveva presentato. Sembrava poco desideroso anche solo di riconoscerne la presenza. Era come se all’estremità del tavolo ci fosse un fantasma che Nina poteva vedere e Monroe no.

«Okay,» disse lei. Monroe aprì il fascicolo che aveva davanti a sé. Nei fogli all’interno c’erano appunti ordinati, ma lui non fece riferimento a essi.

«La famiglia Becker sostiene che la loro figlia è riapparsa sulla soglia di casa,» disse. «Spuntata dal nulla, dopo essere sparita dalla circolazione per una settimana. Dice che la ragazza è stata rilasciata vicino al luogo del rapimento, dalle parti di Santa Monica, e di essere ritornata a casa a piedi. Un vicino è di diverso avviso, e secondo la sua testimonianza la ragazzina è stata riaccompagnata alla porta dei Becker da un uomo e una donna e che una macchina guidata da un terzo individuo li aspettava sull’altro lato della strada. Questo vicino è anziano e di norma non presterei attenzione alla sua testimonianza se non fosse che un’adolescente che risponde alla descrizione e alle condizioni fisiche di Sarah ricevette cure mediche in un ospedale di Salt Lake City la sera precedente. Venne ricoverata contemporaneamente a una donna che aveva una ferita da arma da fuoco nella parte superiore destra del torace. Entrambe le pazienti sparirono alle prime ore del mattino dopo. E tutto questo quasi contemporaneamente al periodo in cui tu hai riportato una ferita analoga, apparentemente in un incidente di caccia nel Montana.»

Nina sentiva un dolore alla testa e il cuore pesante come una pietra. Scosse le spalle, sapendo che non sarebbe stata in grado di dire nulla a Monroe. Né ora, né mai.

«È la segnalazione dell’ospedale a destare il mio interesse,» continuò, «perché tra quel posto e una cittadina chiamata Dyersburg, nel Montana — la città verso cui eri volata solo la notte precedente — si trovava un complesso residenziale chiamato The Halls, ormai ridotto a una buca nel terreno, un fatto su cui tutti, dai poliziotti locali all’NSA, vorrebbero una spiegazione. La polizia è interessata in modo particolare perché si sono ritrovati tra le mani un agente scomparso, un mediatore immobiliare ucciso e altre due morti inspiegabili.»

Nina non disse nulla. Monroe la fissava e così anche l’uomo nell’angolo. La cosa aveva cominciato a farla incazzare definitivamente.

Si voltò verso l’uomo e domandò: «Si può sapere chi è lei, esattamente?»