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I cespugli in questione delimitavano il lato posteriore del piazzale di parcheggio del Cutting Loose, un salone di acconciatore sulla strada principale di Snoqualmie. Come accade spesso, il corpo venne ritrovato da un uomo che stava portando a spasso il cane nelle prime ore del giorno. Dopo avere mantenuto la lucidità per un tempo sufficiente per fare una chiamata dal cellulare, aspettare nei pressi del luogo — ma abbastanza distante da evitare di attirare i curiosi — e alla fine per indicare la strada a due poliziotti mandati dallo sceriffo, quest’uomo si trovava ora seduto sull’altro lato della strada, con la schiena appoggiata a una recinzione e la testa tra le ginocchia. Accanto a lui c’era il suo cane, confuso dall’odore di vomito, ma leale e fedele. Il cane sapeva che al ritorno a casa sarebbe stato confinato nella sua cuccia per tutto il resto della giornata, mentre l’uomo sarebbe uscito per fare quel che faceva tutti i giorni quando non si occupava di lui. Di conseguenza non sembrava avere fretta di rientrare. Se il prezzo da pagare per un po’ di libertà extra era stare seduto sull’asfalto umido di pioggia nei pressi di un rigurgito maleodorante, a lui andava bene. Leccò la mano del padrone per manifestargli il suo appoggio morale e ne ricevette in cambio una carezza distratta.

In quel momento uno degli agenti stava trasmettendo la notizia via radio. L’altro si trovava a qualche metro dal corpo, con le mani appoggiate sui fianchi. Non aveva visto molti cadaveri prima di allora, e in questo c’era qualcosa di terribile. Era sinceramente contento che di lì a poco sarebbero arrivati altri colleghi per prendere la situazione in mano, che non sarebbe stato più compito suo passare i giorni, le settimane, i mesi successivi a cercare di scoprire quale processo avesse trasformato una persona viva in quella creatura illividita dal rigore della morte, quale viaggio quella donna avesse compiuto per arrivare fino a lì. Non aveva voglia di soffermarsi troppo sulla psicologia di un uomo — ammettendo che si trattasse di un uomo, visto che era quasi sempre così — che considerava normale, o addirittura semplicemente comodo, scaricare come immondizia una persona morta a pochi metri dalla strada. E forse peggio, perché la gente di solito si preoccupava perlomeno di mettere la spazzatura dentro i sacchetti, mentre quella donna era stata abbandonata come se valesse ancora meno, come se non meritasse nemmeno la sepoltura temporanea che le persone riservavano a barattoli e scatole di cereali vuoti.

Udì il suo collega concludere la conversazione e decise di aver visto abbastanza. Tuttavia, mentre si voltava non poté fare a meno di notare qualcosa che luccicava all’altezza della testa di quella cosa morta. Andando contro il suo istinto, ma comportandosi come un vero detective, fece un passo verso il corpo e si piegò per dare un’occhiata più da vicino.

Anche se la cosa non era ancora stata discussa ufficialmente, appariva evidente a chiunque che non ci sarebbe voluto né il lavoro di un genio né molto tempo per determinare la causa del decesso. La donna indossava un abito elegante, o quello che ne rimaneva. Al di sotto del collo, il suo corpo aveva l’aspetto di qualcosa che nessuno avrebbe voluto toccare con piacere, frutto del noncurante lavoro compiuto dalla morte dopo l’accaduto. Era sopra il collo che era successo qualcosa mentre era ancora viva. C’era un oggetto conficcato nella sua testa che era a tal punto coperto di sangue rappreso e altro materiale nerastro da rendere difficile il distinguerne le forme. Era proprio al centro del viso, sopra le sopracciglia, illuminato dal pallido sole del mattino.

«Fai attenzione, amico,» disse il suo compagno. «Se incasini la scena del delitto ti strappano il buco del culo per metterselo come anello.»

«Lo so, lo so,» disse.

Si avvicinò ancora di qualche metro. Chinò leggermente la testa per evitare il riverbero. L’odore insolito e la vista terribile rendevano lo spettacolo sgradevole.

In quello scempio che una volta era stata la fronte della donna c’era qualcosa che appariva fuori posto.

L’agente trattenne il respiro e si avvicinò ancora di qualche centimetro. Da quella distanza era impossibile non vedere le formiche e gli altri insetti che si affrettavano a compiere il loro lavoro, come se sapessero che di lì a poco sarebbe arrivato qualcuno a sottrarre loro il tesoro. Ma si vedeva anche che c’era qualcosa infilato nella fronte del cadavere. L’estremità sporgente aveva la larghezza di una carta da gioco, pur essendo molto più spessa — mezzo centimetro o forse anche di più. Il luccichio era prodotto da quelle parti dell’oggetto che non erano ricoperte di sangue rappreso. Sembrava essere fatto essenzialmente di un metallo cromato o di qualche lega lucida. L’estremità inferiore sembrava fatta di plastica nera.

Quando il suo compagno si avvicinò a sua volta per dare un’occhiata, col suo corpo coprì il sole, e improvvisamente parte di quel luccichio scomparve. Di conseguenza l’agente riuscì solo a scorgere qualcosa che assomigliava a un’etichetta oblunga che correva lungo il fondo dell’oggetto.

«Che cazzo è questa roba?»

Poco dopo le nove era ormai stato stabilito che l’oggetto che spuntava dalla fronte della donna era un piccolo hard disk, del tipo montato sui computer portatili. Non ci volle molto perché l’informazione arrivasse all’ufficio di zona dell’FBI a Everett e quindi rapidamente a Los Angeles. Da quel momento tutto degenerò.

Charles Monroe cercò di mettersi in contatto con Nina Baynam, chiamandola su tutti i numeri che aveva, ma la donna non rispose mai alle sue chiamate. Monroe continuò lo stesso a provare, a intervalli regolari. C’era qualcosa che era andato storto nella sua vita, ma in un modo che lui stesso non riusciva a capire, e la situazione sembrava precipitare. Aveva guardato da un’altra parte, aveva perso la concentrazione solo per un attimo, e al suo ritorno aveva scoperto che non aveva più la situazione sotto controllo. Ed era la prima volta che gli succedeva.

Capitolo venti

Henrickson spense il motore e si voltò verso Tom sorridendo. In base ai calcoli di Tom, era il quindicesimo sorriso della mattinata, ed erano solo le dieci.

«Sei pronto?»

Tom afferrò lo zaino che teneva in grembo. «Credo di sì.»

Erano passate quarantotto ore dal suo ritorno a Sheffer. La mattina precedente si era risvegliato dopo una notte praticamente insonne sentendosi troppo malconcio per prendere in considerazione l’idea di una passeggiata nei boschi. L’adrenalina che l’aveva condotto fino a Sheffer adesso era esaurita, lasciandolo esausto, pieno di dolori e con un forte senso di nausea. Si era anche reso conto che era arrivato il momento di riflettere attentamente sull’accaduto.

Henrickson non si era scomposto per il ritardo e gli aveva detto di riposare. Era quello che Tom aveva fatto all’inizio, rimanendosene seduto nella poltrona della sua stanza, avvolto in tutte le coperte che era riuscito a trovare, cercando di rimettere un po’ d’ordine in tutti i suoi pensieri e di capire cosa potesse fare. Nel primo pomeriggio aveva fatto un lungo giro in auto ed era rientrato dopo il tramonto. A quel punto si era sentito abbastanza bene per andare a prendere un altro drink con il giornalista. Quel mattino si sentiva meglio, anche se non ancora al massimo della forma. Aveva comunque recuperato un po’ di calma e di lucidità.

Imboccare nuovamente lo spiazzo all’inizio del sentiero di Howard’s Point gli provocò una reazione molto più violenta di quanto si fosse aspettato. Se tornare al suo rifugio nella gola gli aveva fatto l’effetto di essere uno spirito che ritornava a casa, uscire dalla Lexus di Henrickson lo aveva fatto sentire come suo nonno. Il giornalista aveva parcheggiato dalla parte opposta rispetto a dove si era fermato Tom due giorni prima — e dove era caduto per la prima volta — ma in qualche modo la cosa aveva reso quel ripercorrere i suoi passi ancora più destabilizzante. Quando il secco rumore della portiera che si chiudeva si propagò in mezzo agli alberi, il paesaggio sembrò impregnarsi di una fragilità tremolante, come se fosse stato dipinto frettolosamente sopra un altro sfondo. Una parte della carica emotiva era cambiata. Naturalmente, l’ultima volta che era stato lì era ubriaco, mentre ora aveva solo un leggero postumo da sbornia e un po’ di nausea, e c’era molta più neve.