«Jim, sai che sarà molto difficile trovare il posto.»
«Ma certo.» Il reporter aveva smesso il suo abito elegante, e ora indossava un vecchio paio di jeans e una giacca dall’aria robusta. I suoi scarponi lasciavano intuire una comprovata esperienza di camminatore. L’uomo appariva sano, in forma, e nel complesso più preparato di quanto si sentisse Tom. «Ne sei uscito che era quasi buio. Non è la fine del mondo se non trovi il posto esatto. Anche se… sarebbe meglio se ci riuscissi.»
«Non mi potresti semplicemente dire cosa stiamo cercando?»
Sorriso numero sedici. «Non ti piacciono le sorprese?»
«Non molto.»
«Credimi, sarà una gran cosa per il libro. ‘Kozelek ci riconduce nel luogo che cambierà la Storia, la Biologia e chissà che altro, così come le conosciamo oggi. Insieme al suo intrepido giornalista indica la prova finale. Eccoli che si abbracciano.’ È una cosa tra amici. Naturalmente l’abbraccio è facoltativo.»
Tom annuì rammaricandosi ancora una volta di avere fatto cenno all’intenzione di scrivere un libro. Henrickson aveva detto di non voler farlo ubriacare di nuovo, e lui gli aveva creduto; tuttavia alla fine del secondo giorno gli aveva rivelato praticamente tutto quello che c’era da sapere su di lui. O quasi.
«È solo che non voglio perdermi di nuovo.»
«Non accadrà. Ho fatto un po’ di escursioni. Ho una bussola, e poi, se tu non avessi avuto uno spiccato senso dell’orientamento, a quest’ora saresti morto.»
«Credo anch’io.»
Tom ruotò delicatamente la caviglia. Gli doleva ancora, ma gli scarponi sembravano essere di aiuto. Si mise sulle spalle lo zaino, che questa volta conteneva bottiglie d’acqua, un thermos di caffè zuccherato e qualche frittella. Probabilmente sul fondo c’erano ancora delle schegge di vetro, ma non importava. Se lo stava portando dietro perché era un legame con quanto era successo due giorni prima. Anche il vetro veniva da lì. Aveva intenzione di abbandonare lo zaino in qualche punto della foresta per cercare di lasciarsi alle spalle tutto ciò che rappresentava.
Avanzò fino all’angolo dell’area di parcheggio, esitò per un attimo, e poi scavalcò lo spesso tronco che delimitava lo spiazzo.
Henrickson attese fino a quando il compagno non ebbe percorso qualche metro di sentiero e poi si voltò per dare uno sguardo al parcheggio. Per un attimo sentì qualcosa dietro di sé, come se avesse la sensazione di essere osservato. Fece una lenta panoramica con lo sguardo, ma non riuscì a scorgere nessuno. Strano, di solito ci azzeccava in questo genere di cose.
Si voltò e vide che Kozelek si era fermato. Ora che il viaggio era iniziato, l’eccitazione del compagno stava aumentando in fretta, proprio come Henrickson aveva previsto.
«È da questa parte.»
Henrickson scavalcò a sua volta il tronco e seguì Tom nella foresta.
Nonostante a ovest campeggiasse un banco di nubi, il sole era luminoso e forte. Disegnava sulla neve immacolata grandi ombre dall’aspetto accattivante. Per un po’ i due uomini camminarono arrampicandosi lentamente senza praticamente proferire parola. A quel punto la strada era ormai a una certa distanza e non si sentiva più nessun rumore all’infuori di quelli prodotti dal loro respiro e dai loro passi.
«Sembri abbastanza sicuro, amico. Ti ricordi di essere passato di qui?»
«Non è che mi ricordi esattamente, ma… riconosco l’aspetto generale. Può sembrare stupido forse, e io non sono il tipo da scampagnate, ma…» Si fermò e indicò il profilo degli alberi e delle colline intorno a loro. «Da che parte pensi che dovremmo passare?»
Henrickson fece un cenno col capo. «Certe persone non hanno alcun senso dell’orientamento. Sono come una macchinina con la carica a molla: le lasci andare e vanno diritte fino a quando non sbattono contro un muro. Altre, invece, sentono, sanno dove si trovano. Per esempio, che ora pensi che sia? Pensaci un istante, riflettici. Anzi no, non rifletterci, ma sentilo, piuttosto. Che ora senti che sia?»
Tom ci pensò su. Non sentiva nessuna ora in particolare, ma probabilmente era passata un’ora da quando si erano messi in cammino.
«Le dieci e mezzo.»
L’altro scosse la testa. «Sono quasi le undici. Direi le undici meno cinque.» Fece spuntare il polso dalla manica della giacca e guardò l’orologio. Fece un largo sorriso e poi lo mostrò a Tom. «Che ne dici? Mancano solo quattro minuti.»
«Potresti aver controllato prima.»
«Sì, avrei potuto, ma non l’ho fatto.»
Tom si fermò. Erano arrivati in prossimità di una sporgenza, e in quel momento non era sicuro della direzione da seguire. Henrickson arretrò di qualche passo e guardò dietro di sé. Tom si rese conto che il compagno gli stava dando l’opportunità di valutare, di «sentire» il percorso, e provò un assurdo sentimento di gratitudine. Era già da un po’ di tempo che qualcuno non riponeva più fiducia in lui. William e Lucy erano ormai abbastanza grandi per trovare nel padre più difetti che qualità. Sarah lo conosceva fin troppo bene, era un libro aperto. La maledizione dell’uomo di mezza età era quella di sapere — o credere — di aver detto tutto quello che aveva da dire. Non appena cominciavi a sospettarlo, desideravi immediatamente fare qualcosa, per provare che non era così: ed era in quel momento che cominciavano i passi falsi, che accadevano i fatti spiacevoli.
«È da questa parte,» disse girando a destra.
I successivi venti minuti di cammino furono impegnativi, e ci volle un po’ prima che entrambi ritrovassero il fiato per parlare. Poi il percorso cominciò a scendere verso l’altro versante del crinale, ma con una risalita ancora più ardua. Nulla gli appariva familiare, ma gli sembrava la strada giusta da fare.
Tom guardò verso il giornalista, che gli camminava a fianco tenendogli testa con una falcata agile. «È da molto tempo che stai dietro a Bigfoot, vero?»
«Puoi dirlo forte.»
«Come mai non ci crede nessuno?»
«Oh, sì che ci credono,» rispose. «Solo che è una di quelle cose difficili da ammettere. Nessuno è disposto a passare per idiota e questo è un altro dei modi in cui Loro lavorano. Se sei disposto a fare la figura dello scemo ogni tanto, allora il mondo ti si spalanca davanti come un’ostrica.»
«Dunque, cos’è?»
«Tu cosa pensi che sia?»
Tom alzò le spalle. «Una grossa scimmia. Qualcosa che viveva qui prima che arrivassero gli uomini e che poi si è rifugiato nella foresta. Qui c’è moltissimo spazio. Giusto?»
«In parte,» disse Henrickson. «Personalmente sono convinto che si tratti di uno degli ultimi esemplari viventi di Uomo di Neanderthal.»
Tom si fermò e lo guardò stupefatto. «Cosa?»
Henrickson continuava a camminare. «Non è una teoria dell’ultima ora, a dire il vero. L’unico problema è trovare l’elemento che faccia stare in piedi il teorema. Sai come sono fatti gli archeologi… No, magari non lo sai. ‘Non ci sono prove…’, ‘A giudicare dai fossili…’, ‘Il mio professore dice che non è così…’. Per come la vedo io, esisteva l’Uomo di Neanderthal, una delle specie che meglio si sono adattate in tutta la storia. Questi uomini utilizzavano le lance già quattrocentomila anni fa. Si diffusero in mezzo mondo, compresa l’Europa, quando quello era un posto dove nessuno avrebbe desiderato vivere. L’era glaciale era ancora tale, c’erano animali con denti enormi e non esisteva nulla, ripeto nulla, che facilitasse la vita di questi uomini. Nonostante ciò, sopravvissero per centinaia di migliaia di anni. Praticavano riti funebri, e svilupparono l’odontoiatria, che doveva essere terribile senza nessun «Front Page» ad alleggerire l’attesa. Fabbricarono ornamenti e gioielli e intrapresero traffici commerciali che diffusero le loro merci in tutta Europa. Poi è arrivato l’Uomo di Cro-Magnon — cioè noi — e per un po’ le due specie sembrarono coesistere. Poi gli Uomini di Neanderthal sparirono, puff, lasciando una manciata di ossa appena sufficienti a riempire un sacchetto. E questo, apparentemente, è tutto.»