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Poi, d’improvviso, una luce debolissima illuminò tremolando la mia mente, si spense per un secondo per riapparire poi più intensa.

«Telefona a Monroe,» dissi piano.

«Non ci penso neanche.»

«Cerca di vedere la cosa dal suo punto di vista. Non è un idiota. Sa che ti è accaduto qualcosa di serio alla fine dell’anno scorso: tu sei stata ferita e Sarah Becker ha fatto ritorno dai suoi genitori. Ma tu non gli dici niente, e ora una persona cui sei molto legata se ne va in giro a fare cose terribili.»

«O così sembra.»

«Sia come sia. Anche se Monroe non stesse subendo nessuna pressione, saresti comunque in procinto di essere buttata a mare.»

«Ward, cos’è che stai cercando di non dirmi?»

«Che intendi dire?»

Mi guardò diritto negli occhi. «Quello che voglio dire è che nella tua voce c’è qualcosa che non mi quadra.»

«Ripetimi di nuovo cosa è successo quando sei andata al motel Knights. Quando fu trovato il corpo di Jessica.»

«Ward…»

«Dimmelo e basta.»

«Ricevetti una telefonata sul cellulare da Charles, che mi diceva che qualcuno aveva appena freddato un poliziotto in un’auto di pattuglia e poi era sparito.»

«E quindi?»

«Quindi, niente. Mi disse dove si trovava e che voleva che lo raggiungessi.»

«Per l’omicidio di un poliziotto.»

Nina esitò. «Sì.»

«Che non c’entra niente con l’FBI e nemmeno con lui. A meno che…»

Lei rimase in silenzio per venti secondi buoni mentre metteva insieme gli elementi. «Oh, Cristo.»

«Già. È possibile.»

«Allora per quale cavolo di motivo dovremmo parlare con lui?»

«Perché non abbiamo nessun’altra scelta e poi perché così gli fai questa domanda e vedi cosa ti risponde. E se non ha una buona risposta, allora… o siamo in guai peggiori di quanto pensiamo o abbiamo qualcosa su cui lavorare.»

Nina aveva chiaramente preso la sua decisione prima che io parlassi. Scese dal letto e recuperò il suo cellulare dalla borsa, accendendolo. Nel giro di pochi secondi cominciò a cinguettare diverse volte.

«Messaggi della segreteria telefonica,» disse. Li ascoltò, poi allontanò il cellulare dall’orecchio e rimase immobile con una strana espressione sul volto.

«Era John?»

Lei scosse la testa. «Monroe. Quattro volte. Nessun messaggio, solo: ‘Chiamami’.»

«Allora chiamalo, ma non al numero dell’ufficio. Chiama sul cellulare.»

«Ma se fa una ricerca scoprirà dove siamo.»

«Saprà dove eravamo. Dai, telefona.»

Compose il numero, rimase in ascolto tenendo gli occhi su di me.

Poi: «Charles, sono Nina.»

Da due metri di distanza riuscii a sentire il fiume di parole che proruppe immediatamente. Nina ascoltò.

«Che cosa stai… Oh Cristo, Charles, ti richiamo.»

Interruppe la comunicazione e per un momento apparve senza parole.

«Che c’è, Nina, cosa è successo?»

«Hanno trovato un’altra donna con un hard disk.»

Alle cinque e mezzo stava diventando buio e noi eravamo in macchina, a una cinquantina di metri da un ristorante chiamato Daley Bread. Lo avevamo notato la notte precedente nella sua imponenza anonima, e lo avevamo scelto perché dava su una strada importante, a quattro curve di distanza dalla 99, l’arteria principale che portava a nord o a sud. Facile da trovare e facile da lasciare in fretta. Ci andammo presto perché volevamo verificare se qualcuno si stava appostando, se fossero state fatte delle telefonate alla polizia del luogo o al distaccamento locale dell’FBI o a chiunque altro. In altre parole, se potevamo fidarci almeno un po’ di Monroe.

In mezz’ora non notammo nessuno, eccetto un manipolo disordinato di cittadini vestiti in modo trasandato, che passarono inframmezzati da piccoli gruppi di giovani facoltosi. I due gruppi apparivano totalmente indipendenti tra loro ed era anzi difficile pensare che potessero coabitare negli stessi spazi e luoghi. Sembravano due specie distinte che avessero appena cominciato a studiarsi vicendevolmente. Guardavamo ogni gruppo avvicinarsi e sparire. Alcuni sbirciavano verso la nostra macchina e sicuramente si domandavano perché una coppia se ne stesse lì in una sera buia e fredda. Noi restituimmo gli sguardi. Eravamo paranoici come non mai. Quando in giro non c’era nessuno ci limitavamo semplicemente a osservare la strada in ambo le direzioni.

Alle sei e un quarto, quindici minuti prima dell’appuntamento, aprii la portiera e uscii.

«Fai attenzione,» mi disse.

«Andrà tutto bene. Lui non sa che faccia ho.»

«No, ma altri sì.»

Risalii la strada a passo moderato, cercando di apparire come una via di mezzo tra i derelitti e i giovani di successo. Aspettai un secondo sull’altro lato della strada rispetto al ristorante, ma fuori non vidi nessuno che ricordasse le forze dell’ordine e dentro c’era pochissima gente.

Mentre attraversavo la strada, mi resi conto che qualunque persona con un po’ di sale in zucca avrebbe tenuto segreto il luogo dell’incontro fino a che Monroe non fosse arrivato in città, per rendere più difficile mobilitare agenti locali, qualora ne avesse avuto l’intenzione. Sentivo più che mai la mancanza di Bobby, o di mia madre. Senza di loro sapevo che non mi sarei mai sentito del tutto con le spalle coperte.

Feci una domanda silenziosa, senza muovere le labbra.

«È un’idea stupida?» Non ci fu risposta.

Dentro il ristorante faceva caldo e l’aria era viziata. Una ragazza in uniforme e dall’aria stanca mi venne incontro con un menu in mano. «Io sono Britnee,» disse, pleonasticamente, dato che aveva un distintivo col suo nome delle dimensioni di una targa d’automobile. «Cena da solo?»

Risposi di sì, aggiungendo che avevo notato uno dei séparé che correvano su ambo i lati della stanza. Dato che in tutto il locale c’erano solo due coppie, la ragazza non poté far altro che farmi sedere dove volevo.

Ordinai del chili senza nemmeno consultare il menù. Quando andò a svegliare il cuoco io mi sistemai nel posto che avevamo concordato con Nina. Mi sedetti sul lato destro del séparé, con la schiena rivolta al muro basso che lo separava dal suo gemello sull’altro lato. Nessun tavolo poteva essere visto dall’altra parte, ma era comunque possibile ascoltare quello che si diceva.

Tirai fuori una rivista gratuita che avevo preso nella hall dell’hotel e cominciai a leggere.

Cinque minuti dopo sentii la porta del ristorante che si apriva. Una rapida occhiata mi disse che era Nina. Britnee cercò di dirottarla su uno dei tavoli accanto alla vetrina, probabilmente per la favolosa vista che offrivano sulla strada fredda e bagnata, ma Nina insistette. La persi di vista quando la cameriera la guidò verso il lato dove mi trovavo, e un minuto dopo sentii il rumore di qualcuno che si sedeva al di là del muro divisorio.

Rimanemmo in silenzio per un po’. Udii un’altra cameriera avvicinarsi a Nina e chiederle se voleva da bere e ascoltai la sua risposta. Dal punto di vista acustico la posizione era ottima.

Continuai a far correre gli occhi su pubblicità di negozi locali che non mi interessavano e di ristoranti di storica tradizione, e a conduzione familiare, che sembravano identiche a quelle che si trovavano in qualsiasi altra città del paese. Era strano sapere che Nina si trovava dall’altra parte del muretto, intenta alle stesse occupazioni. Ogni tanto fissavo per un po’ la strada esterna. Non accadeva nulla.

Poi, alla fine, sentii Nina bisbigliare.

«È arrivato,» disse.

Diedi un’altra rapida occhiata verso la porta e vidi un uomo che aveva passato i quarantacinque anni, dal fisico atletico. Indossava un vestito e un lungo soprabito di pelle. Entrò nel locale con passo rapido e superò Britnee prima ancora che lei riuscisse a suggerirgli un posto carino sulla terrazza. Aveva evidentemente individuato Nina da fuori.