«Oppure poteva essere l’assassino che cercava di trovare una via d’accesso. È un tempo di gestazione piuttosto lungo, no? Ci sono segni che sia stato sottratto qualcosa dall’appartamento di Katelyn Wallace?»
«Come facciamo a saperlo? Questa volta non abbiamo avuto la fortuna di avere delle immagini a disposizione. Katelyn non era una prostituta di Internet, era una donna normale, che lavorava sodo.»
«Anche quelle muoiono. Ma… noi partiamo dal presupposto che l’assassino abbia preso le foto come souvenir estemporaneo. Qualcosa di personale, un modo per prendere possesso della vita della donna che aveva intenzione di uccidere. E se ci fosse di più?»
Nina mi stava guardando. «A cosa stai pensando?»
«Stanno cercando di intrappolare l’assassino,» dissi, parlando lentamente per non perdermi nei miei pensieri. «Ecco perché hanno imbeccato Charles. È ovvio. Ma perché? Chi è la persona che gli Uomini di Paglia vogliono incastrare?»
Alzai lo sguardo e fu allora che lo vidi.
Se avessi fatto come avevamo deciso, se fossi rimasto al mio posto limitandomi a tenere sotto controllo la situazione mentre Nina parlava, me ne sarei accorto prima. Così, invece, ebbi solo la fugace visione di un uomo slanciato con capelli corti e occhiali, in piedi all’esterno del ristorante e intento a osservarci.
«Merda…» Fu tutto quello che riuscii a dire prima di udire un rumore di vetri in frantumi, due colpi e il tonfo sordo di un proiettile che si conficcava nel muro alle nostre spalle.
Mi lanciai fuori dal séparé ed estrassi la pistola. Fui svelto, ma Nina lo fu di più perché la sua ce l’aveva già in pugno.
Cominciammo entrambi a sparare ancora prima che Monroe si rendesse rninimamente conto di cosa stesse accadendo. Con l’altra mano afferrai una sedia e la scagliai maldestramente verso la vetrata, cercando di dar loro abbastanza tempo per uscire dal séparé.
Il lancio andò a vuoto, ma Nina fu rapida. L’uomo continuò a sparare attraverso il buco nel vetro fracassato, con colpi cadenzati, uno di seguito all’altro.
Mi accucciai per cercare di rimanere sotto il suo campo visivo, tirando per un braccio Nina nel tentativo di trascinarla dietro un tavolino. Intorno a noi urlavano tutti, Britnee era a terra con il viso pieno di tagli causati dai vetri.
Vidi l’uomo che, come un’ombra, si allontanava dalla finestra, ma non per scappare. Si stava dirigendo all’ingresso per entrare nel ristorante.
«Oh Cristo,» disse Nina, e quando mi voltai vidi che Monroe era accasciato sul tavolo. Lei cominciò a dirigersi verso di lui ma io le afferrai nuovamente il braccio per trattenerla a terra.
«Lascialo perdere.» Sentii la porta del locale spalancarsi e ci fu un’esplosione di urla sempre più forti.
«Ward, Monroe è stato colpito.»
«Lo so.»
L’uomo era arrivato nella zona del ristorante dove stavamo noi. Credo che una parte di me si aspettasse di vedere mio fratello, ma non fu così. Era più giovane e agile, nonostante il torace massiccio. Portava anfibi e un soprabito scuro. Si fermò all’estremità opposta della sala, apparentemente per nulla intimorito da quello che avremmo potuto tentare di fare e puntò Nina.
Gli sparai e lo colpii in pieno petto.
Fu scaraventato all’indietro, andando a sbattere contro un tavolo.
Rimase a terra per circa cinque secondi, un tempo sufficiente perché io cominciassi a tirarmi su, prima di rialzarsi improvvisamente.
Non perdeva sangue e mi resi conto che indossava un giubbotto antiproiettile. Arretrai nel tentativo di ripararmi dietro a qualcosa prima che ricominciasse a sparare. Nina sparò, ma mancò il bersaglio. L’uomo fece fuoco altre due volte ed entrambi i colpi ci passarono vicino. Io sparai ancora, mirando più in alto ma lo mancai. Colpire la testa di un uomo in movimento è difficilissimo. Non è semplice neppure mirare. Devi proprio volere la morte di qualcuno per farlo, anche se in quel momento io la volevo.
Da un altro angolo provenne il rumore di uno sparo e pensai: «Oh Cristo, eccone un altro,» ma poi vidi che era Monroe. Il suo soprabito era coperto di sangue e lui era rannicchiato nel séparé, ma aveva ruotato la parte superiore del corpo e stava svuotando il caricatore contro l’uomo.
Io colsi l’occasione e afferrai Nina per tirarla al di qua del muro divisorio. La mia cameriera si era acquattata lì e cercava di urlare senza però averne il fiato, con il risultato di produrre un suono simile a quello di un topo colpito da un martello.
Sul muro di fondo vidi un paio di porte da saloon.
Si udirono altri spari come fossero lenti battiti di mani.
«Ward, dobbiamo recuperare Charles…»
«È troppo tardi.» La spinsi oltre la porta a vento dentro la piccola cucina. All’inizio fece resistenza, ma poi mi seguì mentre mi facevo strada in mezzo a due uomini vestiti di bianco dall’aria terrorizzata, e poi attraverso la porta aperta sul retro. In cima a una piccola rampa di scale scivolai, ma afferrandomi alla ringhiera riuscii ad arrivare in fondo.
Corremmo lungo il lato del ristorante. Il rumore degli spari era cessato. Guardai dentro e vidi l’uomo all’altezza del séparé dove Monroe ora giaceva a faccia in giù sul tavolo.
Il killer si voltò e ci vide. Cominciò a correre velocemente verso di noi.
«Prendi la macchina!» urlai. Nina continuò a correre.
Mi voltai e puntai la pistola, procedendo all’indietro il più velocemente possibile. Aveva sparato il suo colpo ancora prima che mi rendessi conto che era uscito in strada.
Feci fuoco e lo colpii di nuovo, stavolta allo stomaco, scaraventandolo indietro ancora una volta. Mi voltai correndo precipitosamente fino a raggiungere la macchina proprio nel momento in cui si accesero i fari e udii il rombo del motore.
Poi ebbi la sensazione che qualcuno mi avesse dato un pugno sulla spalla. Persi l’equilibrio, girai su me stesso rovinando a terra. Mi tirai su, ancora incerto sull’accaduto, ma sentendomi fuori uso, e risposi al fuoco.
La macchina fece uno scatto in avanti, la portiera si spalancò e io mi buttai dentro. Avevo ancora le gambe penzolanti all’esterno allorché Nina diede una violenta accelerata e partì a tutta velocità. Quando fui dentro e con la portiera chiusa, lanciò l’auto in una curva stretta e cominciò a risalire la strada.
«Dove vado?» Lanciò un’occhiata verso di me e l’improvviso strabuzzare dei suoi occhi mi confermò ciò che già sospettavo.
Posai una mano sulla mia spalla e la sentii bagnata e calda.
«Dove vuoi,» risposi, mentre il dolore sembrava tagliarmi in due come la lama di un coltello.
Capitolo ventitré
Uscirono dall’Henry’s Diner sotto una pioggerella insistente. Non appena il freddo lo raggiunse Tom cominciò a tremare vistosamente. Era riuscito a mangiare la metà del suo pasto, curvo, come Henrickson, su un tavolo nell’angolo in fondo. Tom si era accorto degli sguardi di alcune persone del posto. Si riusciva a intuire i loro pensieri: «Ecco il tizio di Bigfoot» — o magari «Il tizio che racconta stronzate» — e questo non aveva aiutato molto il suo appetito. Henrickson era stato insolitamente silenzioso durante la cena, ed era passato un bel po’ dal suo ultimo sorriso. Forse anche lui era esausto, sebbene non ne avesse l’aria. I suoi movimenti continuavano a essere netti e precisi, e mangiò velocemente e metodicamente, sbarazzandosi in pochi minuti di una bistecca di pollo fritto. L’aveva chiesta al sangue, il che era una novità per Tom e anche per la cameriera, a giudicare dallo sguardo che gli rivolse. Nelle pause del pasto, l’uomo aveva guardato fuori dalla finestra come augurandosi che l’oscurità si dileguasse.