Выбрать главу

Emise un gemito fioco e disperato. Quando ne fu in grado si scrollò di dosso lo zaino e rotolò sulla schiena. Il dolore al petto era così intenso che gli fece emettere un fischio involontario. Questa caduta gli aveva fatto molto più male di quella fuori dalla macchina. Si sentiva come se qualcuno avesse infilato una lancia nel lato destro del suo corpo e stesse incoraggiando un bambino a estrarne l’estremità. Anche i testicoli gli facevano male e il dolore saliva a una piccola cavità incandescente nella parte bassa dell’addome.

Dopo un altro po’ si mise a sedere. Senza guardare, fece scorrere una mano indagatrice lungo il fianco, per scaramanzia, ma non trovò niente che spuntasse. Vide a tre metri di distanza la torcia che emetteva la sua luce fioca tra il sottobosco e si mosse carponi nel fango gelido per recuperarla. Aveva la vista leggermente sdoppiata, ma più o meno come nelle due ore precedenti, e quindi non se ne preoccupò eccessivamente.

Recuperare la sua fonte di luce gli sembrava un passo compiuto nella giusta direzione. Aveva l’impressione di essere precipitato in una vasta gola rocciosa, destinata ad accogliere un torrente generato dal disgelo primaverile, ma che ora ospitava solo uno striminzito ruscello che riuscì a sentire a pochi metri di distanza. A eccezione di questo, il resto era silenzio. Silenzio e gelo.

Decise che si era spinto abbastanza lontano. Per questa notte bastava, e dopo tutto per lui non doveva esserci alcun domani. La scuola era solo finita un po’ prima del previsto, tutto qui.

Si spinse indietro fino ad appoggiare la schiena contro la roccia. Poi si portò lo zaino tra le ginocchia e lo aprì. Almeno una delle bottiglie rimaste si era rotta — il fondo della borsa era zuppo e pieno di schegge, e l’odore dell’alcool gli investì il viso. Fece luce e vide che non c’era modo di infilarci la mano dentro. Così capovolse lo zaino facendo cadere a terra la maggior parte del contenuto. Ci volle un po’, ma trovò le scatolette dei sonniferi.

Mentre estraeva laboriosamente le pillole dalle confezioni per raccoglierle in un mucchietto su una foglia vicina, percorse una sorta di check list interiore.

Doveva perdersi: fatto. Ubriacarsi: fatto. Cristo se l’ho fatto. Mettiamoci una bella croce rossa, grande.

C’era da pagare il motel, accennando di sfuggita al ritorno a Seattle: fatto.

«Per fare un’escursione con quel freddo bisogna essere fottutamente pazzi e poi siamo a metà settimana, fuori stagione, e si è allontanato dai sentieri conosciuti»: fatto.

Una pressione, un’altra pillola. Una pressione, un’altra pillola. Diede un’occhiata al mucchietto. Erano abbastanza? Meglio essere sicuri. Continuò a premere. Fatta in quel modo non sarebbe stata un’overdose blanda, ma virile.

Con ogni probabilità la macchina sarebbe stata individuata l’indomani, e nel giro di un giorno o due qualcuno avrebbe investigato. Non a piedi, ma molto probabilmente dal cielo, con un sorvolo casuale. Nel suo ultimo giorno a Sheffer, Tom aveva comprato vestiti e zaino con colori autunnali, per rendere ancora più difficile la sua individuazione da un aereo o un elicottero in perlustrazione. Se avesse sborsato qualche soldo in più anche per comprarsi degli scarponi da trekking adeguati, ora la caviglia non gli farebbe così male, ma allora non gli era sembrato che ne valesse la pena. Come volevasi dimostrare: bisogna sempre avere l’attrezzatura adatta.

A ogni modo, check list generale: fatto.

Man mano che il mucchio di pillole cresceva, si sorprese di non sentirsi spaventato. Aveva creduto che lo sarebbe stato, che l’imminenza del gesto avrebbe potuto gettarlo nel panico, che avrebbe cercato di combattere la morte. Invece si sentiva semplicemente stanchissimo. In un punto qualunque durante il tragitto tra la macchina e questa gola trovata per caso aveva perso ogni rimanente sensazione della sua vita intesa come un processo. Era diventata semplicemente un evento singolo, questo evento, in questo posto, ora. Era buio e si stava facendo tardi. Tutto era perfetto. Tutto era a posto.

Sentiva già molto freddo, e le sue dita erano come smagrite e ingovernabili. Cominciò a prendere le pillole, un paio alla volta, ingoiandole con altro alcool. Ne fece cadere alcune, ma ce n’erano a volontà. Ne prese una quantità enorme, mentre borbottava qualcosa nell’oscurità. Addio Sarah, trovati qualcun altro. Addio William, addio Lucy. Mi odierete per questo, lo so, ma mi avreste odiato comunque tra non molto.

A un certo punto sembrò accettare il fatto di essere entrato nel regno della dose letale, al di là della quale ogni cosa diventava più semplice. In effetti tutto sembrava semplice. Persino la foresta sembrava diventata un po’ più calda, anche se era possibile che in realtà fosse Tom a non sentire più le proprie estremità. Tutto diventò confuso e liquido mentre stava seduto e scivolava nella perfetta oscurità. Sentiva freddo e non lo sentiva, era stanco morto e al tempo stesso perfettamente lucido. La paura si aggirava nel sottobosco, ma si teneva fuori dalla sua portata, fino a quando Tom non si rese più conto di niente e non si preoccupò più di infilarsi altre pillole in bocca. Sospirò brevemente, poi non fu più in grado di ricordarsi a cosa stesse pensando. Cercare di seguire i pensieri era come camminare da soli lungo una strada deserta nella quale i negozi stanno chiudendo uno dopo l’altro.

Quando le palpebre cominciarono a battere, cercò di tenerle aperte, senza il minimo senso di disperazione, ma come un bambino che cerca di tenere lontano il sonno che sa di non poter combattere. Quando alla fine si chiusero, sentì per un attimo la testa leggera, poi tutto cominciò a sfumare in un grigio ardesia. Si aspettava, per quanto potessero rimanere in lui aspettative, che questo processo sarebbe continuato fino a che tutto fosse diventato nero e silenzioso. Un breve momento sognante, come una lenta rotazione all’indietro, e poi nemmeno quello. Addio.

Non si aspettava di svegliarsi nel mezzo della notte, ancora ubriaco, tormentato da brividi in tutto il corpo. Non si aspettava di essere vivo e in preda a ogni sorta di dolore. E certamente non si aspettava di vedere qualcosa stagliarsi al di sopra di lui, qualcosa di enorme, qualcosa che aveva un odore che ricordava la puzza di carne marcia trasportata da un vento gelido.

Capitolo due

Il ristorante era costituito da una grande sala suddivisa in due aree ben differenziate, una parte centrale con dei tavoli, e una serie di séparé sui tre lati. All’ingresso di ogni séparé pendevano delle piccole lanterne, nessuna delle quali però funzionava. Le pareti erano coperte da grandi murales stile rétro: dominavano i blu accesi, i rosa pallido e linee scarabocchiate in nero. All’ingresso, le alte finestre lasciavano intravedere un parcheggio intristito dalle foglie secche che lo ricoprivano, e osservai mentre un vento freddo giocava con loro. Ero al mio solito posto, uno dei séparé sul fondo della sala. Mi piaceva stare lì. La panca non era troppo accostata al tavolo, e così non ti sentivi troppo stretto. Il menu era infarcito di astuti giochi di parole ed era pieno di roba tipo hamburger, burritos, le buone vecchie insalate dello chef, e chili (alla Cincinnati, alla texana e in mille altri modi): in poche parole, proprio quello che faceva per me.

Tutto sommato era un posto perfetto per mangiare, eccettuato per un particolare: il servizio faceva schifo. Stavo ormai aspettando da un bel pezzo e non era ancora venuto nessuno a darmi il benvenuto, né ad assicurarmi che ero stato inserito nel meccanismo o a portarmi dell’acqua gelata che non avrei bevuto. E, a dirla tutta, non era solo il personale ai tavoli che batteva la fiacca. Appena arrivato, avevo notato che qualcuno aveva rovesciato la maggior parte delle sedie nella zona centrale della sala, che appariva in disordine. Le avevo risistemate, mettendole diligentemente sotto i tavoli, anche se quello non era mio compito. Non spettava a me nemmeno cambiare le lampadine. Presi in considerazione l’idea di andare in cucina, ma sapevo che non avrebbe portato a nulla. Là dentro tutto era ancora più silenzioso e buio.