Si allontanò da me di un passo e si mise le mani sui fianchi. Poi guardò altrove sbuffando. «Ti ho fatto male alla spalla?»
«È il minore dei problemi,» dissi. «Comunque, mi sento come se avessi sbattuto con la faccia contro un muro. Quando schiaffeggi qualcuno, se lo ricorda.»
Tornò a guardarmi con la testa inclinata. «Bene, ora conosci questa mia dote. Quindi non costrigermi a rifarlo.»
«Proverò.»
«Non basta che provi, chiunque può farlo. Io ho bisogno che tu faccia di più.»
«Okay,» dissi seriamente. «Fidati di me, non lo rifarò.»
«Bene,» disse, e si lasciò andare in un sorriso che fu più breve di un battito d’ali, ma mi fece lo stesso venire i brividi. «Perché ricordati — ho anche una pistola.»
Si voltò di scatto e cominciò a salire le scale.
«Cristo,» dissi. «Non sei per niente come le altre donne.»
«Oh, sì che lo sono,» disse, e non riuscivo a capire se in quel momento stesse scherzando o no. «Solo che voi uomini non ne avete alcuna idea.»
Riuscimmo a prendere l’ultimo volo per Seattle. Il tempo di arrivare e trovare una macchina a noleggio ed era già mezzanotte. Con l’ausilio di una cartina e di due hamburger presi a uno Spinner’s di Tracoma, eravamo pronti ad affrontare il viaggio, sebbene nessuno di noi due fosse nella sua forma migliore.
Guidavo io, cercando di evitare che il dolore al braccio si riacutizzasse e lasciando così Nina libera di fare quello che avevamo concordato sull’aereo. Era ancora decisa a non chiamare l’FBI — per quanto ne sapeva, l’uomo che l’aveva interrogata insieme a Monroe nella sala riunioni poteva essere ancora in città e sulle sue tracce — ma c’era una persona con la quale era pronta a tentare.
Chiamò Doug Olbrich e parlarono per cinque minuti. Io ero abbastanza indaffarato con la rete autostradale della Seattle-Tracoma, e non capii esattamente quello che si dissero, ma almeno parte del colloquio sembrò positivo.
Quando terminò, Nina rimase per un po’ a fissare il vuoto, poi batté con la mano sul cruscotto come aveva fatto il giorno prima, anche se questa volta non sembrava così incazzata.
«Qual è il risultato?»
«Poteva andare peggio,» disse. «Monroe non è morto.»
«Stai scherzando.»
«No. Quello stronzo è ancora vivo. Incredibile. Evidentemente ha la pellaccia molto più dura di quanto pensassi. Ha cinque fori di proiettile in corpo ed è stato sotto i ferri sei ore. Sta molto male, comunque. Dicono che al massimo ha il venti per cento di probabilità di salvarsi, ma non è ancora morto.»
Mi sentivo orribilmente colpevole per aver abbandonato Monroe, per averlo dato per spacciato.
«Hai fatto bene a portarmi via,» disse Nina. «Se non l’avessi fatto, probabilmente ora non sarei viva.»
«Ho come la sensazione che le cattive notizie non siano finite.»
«Doug è andato al mio appartamento per cercarmi. Qualcuno l’ha messo sottosopra e ha rubato i miei documenti.» Scrollò le spalle e sembrò esausta più che triste. «Avevi ragione, Ward. Era giunto il momento di andarsene.»
«Mi dispiace.»
«Non importa,» disse sbrigativamente. «Il caso Gary Johnson comincia a scottare. Hanno scoperto che attorno a questo avvocato della Louisiana ruotano un sacco di soldi e un forte vento in poppa.»
«Ma tu guarda. Mi domando da dove arriva.»
«Già. Monroe è nei casini anche se sopravvive. Sai come vanno queste cose: quando qualcuno solleva un macigno di queste dimensioni, deve trovare qualcosa sotto per giustificare quel gesto. Io so di non aver omesso nulla nel caso Johnson, ma chi ci dice che Monroe non abbia preso qualche scorciatoia? Voleva risolvere il caso. È così che è diventato agente speciale.»
Smise di parlare e rimase in silenzio per un po’. La lasciai stare fino a che non arrivammo sani e salvi sulla 18, con la 90 in vista.
«Non gli hai detto cosa abbiamo scoperto,» dissi, accendendomi una sigaretta.
«Cosa crediamo di avere scoperto.»
«Come vuoi, ma non gliel’hai detto.»
«No,» disse piano. «Questo mi rende forse una persona cattiva?»
Scoppiai a ridere, ma poi mi accorsi che lei non faceva lo stesso. La guardai per un attimo pensando quanto fosse difficile conoscerla a fondo. «Agli occhi della legge, sì. È un po’ come nascondere una prova. Può portarti dritto all’ergastolo.»
Annuì, ma non disse nulla.
«Dai, Nina,» dissi. «L’accordo vale per entrambi.»
«Lo so. A lui non ho detto nulla perché non credo che ci sia qualcuno oltre noi che ha davvero intenzione di andare dove è necessario.»
«E dove sarebbe?»
«C’è un posto per gli uomini che infilano oggetti nelle teste delle donne e non è una prigione.»
«Non dirai sul serio?»
«In questo preciso momento, sì. Anche se si tratta di John. E non ho detto nulla a Doug perché ha fatto cenno di sfuggita a qualcosa, e dopo non mi sembrava…» Si voltò verso di me e finalmente sorrise. «Ce la fai a guidare ancora un po’?»
«Credo di sì.»
«Hai presente la macchina di cui ci ha parlato Monroe, quella che era stata vista passare per Snoqualmie la notte prima del ritrovamento di Katelyn?»
«Sì, e allora?»
«Tre ore fa uno sceriffo locale ha fatto una verifica. Non ha portato a nulla perché è a noleggio e non era stata rubata, ma Doug ha registrato la posizione e ha detto che qualcuno, domani, potrebbe andare a dare un’occhiata. La segnalazione è arrivata da un posto a un centinaio di chilometri da Snoqualmie. Penso che dovremmo arrivare lì per primi.»
«Quindi dove siamo diretti esattamente?»
Guardò velocemente sulla cartina, poi posò il dito su un punto che sembrava proprio in mezzo alle montagne.
«Qui. A Sheffer.»
Verso l’una di notte Nina si addormentò con la testa reclinata, ma con le braccia incrociate sul davanti. Ascoltavo il suo respiro mentre mi dirigevo a est lungo la 90. Il paesaggio era troppo scuro per distinguerlo chiaramente, ma un qualche organo interno di rivelazione registrava un costante aumento di altitudine. Ogni tanto incrociavamo una macchina, un viaggiatore alle prese con un’altra avventura.
Salimmo ancora e io rallentai a settanta chilometri all’ora, e poi a sessanta quando la strada divenne più tortuosa. Stava diventando molto freddo e c’erano anche fantasmi di nebbia tra gli alberi che incombevano sulla strada, illuminati dai fari al sodio e da una luna che sembrava giocare a rimpiattino con le nuvole. A un certo punto accostai per capire meglio dove eravamo diretti. Nina si mosse senza però svegliarsi, e io rimisi in moto la macchina il più dolcemente possibile.
Al termine della salita imboccai una strada locale più stretta che indicava Sheffer a quindici chilometri di distanza. Se prima avevo percepito le montagne e gli alberi solo come uno sfondo, ora cominciavo a sentirmi un intruso in mezzo a loro.
Sheffer era piccola. Erano le tre meno un quarto del mattino, e tutto era chiuso. Percorsi la strada principale, sentendomi come un invasore alieno che aveva scelto il momento giusto per fare la sua mossa. Passai davanti a un supermercato, a un bar e a un paio di ristoranti. Poi, in lontananza, vidi finalmente l’indicazione di un motel.
Entrai nel piazzale compiendo un arco lento e ampio per parcheggiare. Nell’ufficio non c’erano luci accese. Eravamo fuori stagione e in una città piccola, e non sembrava nemmeno esserci il campanello per la chiamata notturna. Si preannunciavano un paio di ore di freddo rigido passate sul sedile della macchina.
Spensi il motore e aprii la portiera, scivolando fuori prima che nell’abitacolo entrasse troppo freddo. La mia intenzione era di fumare un’ultima sigaretta prima di tentare di prendere sonno.