Mentre ero in piedi e aspiravo il fumo, mi accorsi improvvisamente che nel parcheggio sull’altro lato c’erano quattro macchine, come accade regolarmente in tutti i motel. Ma a noi ne interessava una in particolare.
Non sapevo che numero di targa stessimo cercando. Nina non me lo aveva detto e in ogni caso non me lo sarei ricordato. E poi, sarebbe stata veramente parcheggiata lì, davanti a un motel?
Mi avvicinai alla prima macchina e sbirciai dal finestrino. Il sedile posteriore era pieno di roba da vacanzieri: giacconi, mappe di sentieri, e una quantità di oggetti colorati pensati per prevenire le domande tipo: «Quanto manca all’arrivo?»
L’auto successiva era a circa dieci metri. Faceva molto freddo e avevo finito la sigaretta. Fui tentato di lasciar perdere, ma poi finii per avvicinarmi. Non sembrava il tipo di macchina che uno prende a noleggio. Era enorme, arrugginita e coperta di fango, ma mi protesi comunque per dare un’occhiata.
Sentii un rumore smorzato di passi proprio all’ultimo istante e feci per voltarmi.
Poi la mia testa si riempì di stelle che rapidamente lasciarono posto al buio.
Capitolo venticinque
Qualcosa di rosso, come un faro nel bel mezzo della notte. Un rumore lieve, come lo sciabordio del mare su una spiaggia, il tipo di rumore che il mondo produce quando crede che non ci sia nessuno ad ascoltare. Un rilassamento sonnacchioso, prima che comparissero due tipi di dolore, come due lunghe viti che venivano serrate: il dolore alla spalla e quello alla nuca.
Sollevai la testa e aprii di più gli occhi. Capii che la luce rossa proveniva da una sveglia. Mi ci volle qualche secondo per distinguere bene i numeri. Dicevano che erano da poco passate le cinque del mattino. La stanza era immersa in quel tipico silenzio tombale che ti fa pensare di poter sentire il rumore della moquette. L’odore era quello di un motel.
Apparentemente ero accasciato su una sedia, piegato in due. Avevo la sensazione che la mia testa fosse ancora immersa nell’etere, mentre i pensieri si facevano strada barcollanti come bambini troppo intraprendenti. Cercai di sedermi in modo corretto, ma senza risultato. Questo fatto mi inquietò, ma solo prima che mi rendessi conto che avevo le mani e i piedi legati alle gambe anteriori della sedia. Anche questo mi allarmò, ma in modo diverso.
Smisi di provare a muovermi e girai invece la testa. Un dolore lancinante partì dalla tempia e arrivò alla spalla, e l’unica cosa che riuscii a fare fu tentare di non urlare. Probabilmente non c’era nessuna ragione perché io mi trattenessi, se non il fatto che quando ti ritrovi legato a una sedia in una stanza buia tendi a non voler attirare ancora più attenzione di quella ricevuta.
Aspettai qualche istante, mentre le piccole luci che i miei occhi vedevano scomparivano lentamente. Poi riprovai, ma questa volta più lentamente. La stanza era buia, immersa in un’oscurità che si può trovare solo a molta distanza dalle luci cittadine. C’era comunque sufficiente luce perché il mio cuore sobbalzasse alla vista di qualcuno in piedi, vicino alla finestra.
Le mie labbra si schiusero con un rumore impercettibile, ma non pronunciai parola. Forse non potevo. Raddrizzai la testa e spalancai gli occhi, ma mi resi conto che la sagoma vicino alla finestra non era in piedi, ma seduta, con le gambe incrociate sulla scrivania.
Finalmente riuscii a parlare. «Paul?»
«Naturalmente no,» rispose subito una voce. «Credi che saresti ancora vivo in quel caso?»
In quel momento abbandonai immediatamente ogni speranza. Non avevo la minima idea di come avesse fatto a trovarci l’uomo del ristorante di Fresno, ma sapevo che non sarei riuscito a salvarmi una seconda volta. Almeno, non legato a una sedia. Mi domandai dove fosse Nina e sperai che fosse viva, o, in caso contrario, di non venire a saperlo.
Poi sentii un fruscio e realizzai che era lo stesso che avevo udito mentre mi sforzavo di riprendere conoscenza.
Era originato dallo spesso cappotto dell’uomo che si era alzato dal suo posto.
Percorse i quattro metri che ci dividevano e si fermò un secondo a guardare. Poi si abbassò per avvicinare il suo viso al mio.
«Ciao Ward.»
«Stronzo.»
Era John Zandt.
Era seduto sul bordo del letto, rivolto verso di me, ma senza accennare al rninimo gesto per slegarmi.
«Dov’è Nina?»
«Nell’altra stanza, legata come te, e c’è il cartellino ‘Non disturbare’ sulla porta.»
«Quando si sveglierà comincerà a urlare così forte che neanche te lo immagini.»
«Imbavagliata com’è, ne dubito. E se tu provi a respirare più profondamente ti colpirò così forte che non ti sveglierai per una settimana, ammesso che ti risvegli.»
«Cosa credi di fare John? Cosa c’è che non va?»
«Nulla,» rispose. «Sto semplicemente evitando che mandiate tutto a puttane.»
«Mandare a puttane cosa? La tua furia omicida?»
«Chi credi che abbia ucciso?»
«Peter Ferillo per cominciare.»
Respirò forte dal naso. «Sì l’ho ucciso, è vero.»
«E chi altri?»
«Perché pensi che ci sia qualcun altro?»
«Altrimenti perché domandarlo? Hai ucciso tu le due donne? Hai ucciso tu Jessica e Katelyn per arrivare a Paul?»
«Smettila di chiamarlo così. Non è degno di avere un nome.»
«Ce l’ha, devi abituarti all’idea. Le hai uccise o no?»
«Pensi davvero che potrei uccidere una donna?»
«Che differenza fa? Perché, uccidere un uomo è lecito? Se cominci a fare distinzioni del genere allora non c’è molta differenza fra te e Paul. Hai colpito la ragazza che era con Ferillo abbastanza forte da causarle una commozione cerebrale. Come lo inquadri nel tuo nuovo decalogo di moralità?»
«Non era previsto. Sapevo cosa avrei dovuto fare per far parlare Ferillo, ma ero semplicemente troppo ubriaco. L’ho lasciata dove poteva essere trovata facilmente.»
«Sei un gentiluomo. E una volta che ha confessato, quell’uomo non poteva fare altro che morire, giusto?»
«Sì. Quando scoprii che mentre si trovava a Los Angeles aveva aiutato a organizzare il trasporto delle ragazzine agli assassini. Forse era convinto semplicemente che dovessero essere istruite per fare le puttane — è così che si è giustificato. Ma sai una cosa? Per me già quello bastava.»
Dall’espressione del suo volto, capii che John non aveva nessuna intenzione di rimettere in discussione l’omicidio di Ferillo. «Per l’amor di Dio, John, slegami.»
Scosse la testa. «Non ci sperare. Ti metteresti in mezzo e non sei all’altezza.»
«Vaffanculo.»
Tutt’a un tratto mi ritrovai il suo dito puntato in faccia. «Non eri tu l’ultima volta? Con quel tuo colpo preciso? ‘Mi dispiace, l’ho mancato.’ Hai forse ucciso l’uomo che ha fatto a pezzi mia figlia quando te lo sei trovato di fronte?»
Non potevo ribattere. Sapevo che aveva ragione. «È qui, vero?»
«Sì,» rispose John. «Sta cercando qualcosa perché è convinto che in questo modo tutto si sistemerà.»
«È impazzito, vero? Non è più lo psicopatico al servizio dei cattivi. Lo hanno accantonato e ora lo vogliono morto.»
«Devo ammettere che non sei stupido.»
«Devi dirmelo, John. Ho il diritto di saperlo. E liberami, oppure dammi da bere. Sto congelando qui dentro.»
Andò in bagno. Sentii rumoreggiare nell’oscurità, poi John riapparve con un piccolo bicchiere con due dita di un liquido ambrato dentro. Aprii la bocca e mi fece bere. Cominciai a tossire, ma il calore si diffuse nel mio petto.
Indietreggiò, andando verso la finestra, e rimase a guardare per un po’ il parcheggio.