«Mrs. Anders, vorrebbe spiegare a Tom che cos’è questo?»
«Un albero abbattuto,» disse.
Henrickson scosse la testa, percorse i pochi metri che lo separavano dall’estremità e posò il piede sopra il tronco. Ne esaminò le estremità e poi lo percorse fino all’altro lato, camminando sul tronco come se questo fosse stato largo tre metri.
«Entrambe le estremità sono state lavorate,» disse l’uomo accucciandosi per esaminare il legno. «E i rami lungo il tronco sono stati tagliati. È stato anche ruotato di circa venti gradi rispetto alla posizione che aveva quando è caduto. Sono stupito che tu non te ne sia accorto, Tom.»
«Non stavo bene,» disse Tom. Il che era vero, ma in tutta onestà non riusciva a capacitarsi di come quel particolare gli fosse sfuggito. Una volta visto era troppo evidente.
«In questo periodo puoi attraversare il torrente normalmente,» disse Henrickson, «ma in primavera devi fare una camminata lunghissima nell’una o nell’altra direzione. Questo è una sorta di ponte ed è stato costruito da qualcuno. Lo hanno realizzato i nostri amici della foresta, concretamente ed espressamente. Erano da questa parte e volevano andare dall’altra. Così hanno costruito questo semplice marchingegno. Tom, ecco la tua prova. Te l’avevo detto che ne sarebbe valsa la pena.»
«Come fai a sapere che non è stato qualcun altro? O la traccia residua di qualche disboscamento?»
«Perché so che i boscaioli non si sono spinti fino a questa zona, così come so che è improbabile che un essere umano possa fare questo lavoro con utensili di pietra.» Guardò Patrice. «Solo un albero abbattuto, vero?»
«Per me è così. Magari lei sta vedendo qualcosa che è una proiezione della sua mente, non esattamente quello che ha davanti agli occhi. Capita a molte persone.»
Henrickson ripercorse il tronco e sogghignò un’ultima volta. Poi osservò il burrone.
«La pensi come vuole, ma procediamo in questa direzione ancora un po’ e vediamo cosa troviamo.»
Camminarono per altri dieci minuti, mantenendosi vicini al ciglio del burrone. Le pareti diventavano sempre più ripide e profonde e il torrente andava sempre più ingrossandosi alimentato dalle cascate invernali, non impetuose ma continue.
Alla fine arrivarono alla sommità del crinale e Tom rimase senza fiato.
Sotto di loro il terreno scompariva. A sinistra il torrente precipitava improvvisamente nel vuoto per finire in una conca rocciosa sessanta metri più in basso. La foresta era davanti ai loro occhi, un immenso tappeto scosceso, verde con punte biancastre, che si estendeva fino al Canada e oltre. In cielo era visibile la sottile scia di un aereo che attraversava la stretta striscia di azzurro. Quello era l’unico segno visibile della presenza dell’uomo. Altrimenti, l’impressione era che gli esseri umani non fossero mai arrivati lì. Tom rimase a osservare le nuvole che riempivano quel vuoto, fino a che il cielo non divenne tutto grigio, poi abbassò la testa per guardare la foresta.
«È meraviglioso,» disse.
«Immagina quando non c’era altro che questo,» disse dolcemente Henrickson, avvicinandosi a lui. «Quando qui non c’era nessuno.» Al cospetto del mondo com’era prima che arrivasse la civiltà delle parole, Tom riuscì solo a scuotere di nuovo la testa. E continuò a farlo lentamente sentendo gli occhi che si inumidivano. Non sapeva perché.
«Voglio ringraziarti, Tom,» aggiunse Henrickson, ritrovando improvvisamente il suo accento montanaro, quello della persona che Tom aveva creduto di conoscere. «Hai provato con tutte le tue forze, amico mio, e non è stato un periodo facile per te, lo so. Sai qual è la cosa buffa? Mi ha fatto veramente piacere avere qualcuno con cui parlare.»
Tom continuava a scrollare il capo, e si limitò ad annuire. Guardò dietro di sé e vide la sagoma confusa di Patrice Anders, con le mani ancora legate dietro la schiena. Gli fece un sorriso mesto, e poi distolse lo sguardo.
Poi Henrickson posò una mano sulla spalla di Tom, e lo spinse oltre il ciglio del precipizio.
Tom provò una strana sensazione, la consapevolezza di non avere nulla sotto i piedi, come se fosse ritornato sopra quel ponte che aveva trovato da solo, ma stavolta senza la sua voce interiore pronta ad aiutarlo. Poi avvertì la pura assenza di peso durante la caduta libera, rapida e veloce, prima di iniziare a sbattere. Questa volta gli impatti non furono colpi e scivolate, ma una successione rapida di collisioni da spaccare le ossa che lo fece ruotare e ruzzolare come una bambola di pezza. Un ultimo, breve salto nel vuoto e poi Tom atterrò come un pezzo di vetro.
Giacque incastrato tra due grandi massi, nascosto sotto una muschiosa sporgenza a nove metri dal suolo. Cercò di emettere un suono qualsiasi, ma sentì solo un gorgoglio. Il suo corpo era contorto e fracassato, i vestiti strappati e macchiati di sangue e la sua gamba sinistra era in condizioni pietose. Dell’acqua fredda scorreva sui suoi piedi e sulla mano sinistra distesa, ma non riusciva a sentirla. Sebbene avesse il cranio fratturato, così come lo zigomo, i suoi occhi vedevano ancora e il braccio destro funzionava, anche se poco.
Nei venti minuti successivi riuscì a fare solo una cosa: tirare fuori il suo cellulare dalla tasca della giacca, andare con una certa difficoltà al menu messaggi e scrivere, con un pollice che a fasi alterne tremava o era rigido: «Ho visto Bigfoot. Ti voglio b…»
Poi morì. E in ogni caso non c’era campo.
Sessanta metri più sopra, Patrice fissava ostinatamente Henrickson.
«Era proprio necessario?»
«Sì ma non mi aspetto che lei capisca.»
«Intende buttare giù anche me?»
«Uno è sufficiente. E poi lei ha un compito da svolgere.»
«Questo posto è tutto quel che conosco e non so andare oltre. Se vuole un orso dovrà andare a cercarselo da solo.»
L’uomo scosse la testa. «Non credo. Se ce ne sarà bisogno la costringerò a dirmi dove vivono. Ma per ora ripercorreremo il torrente fino al punto in cui Tom ha detto di avere visto il suo ‘orso’ e resteremo lì ad aspettare.»
«Pensa che verranno a farsi quattro passi da queste parti?»
«No. Ma so che significano molto per lei, il che mi fa pensare che anche lei significhi qualcosa per loro. Quando sapranno che lei è qui, potrebbero decidere di farsi vedere.»
«Come se fossi una sorta di mamma orsa? Fantastico. I miei stessi figli non mi fanno visita da diciotto mesi.»
«Patrice, sta cominciando a farmi incazzare con il suo atteggiamento.»
«Sapranno che non sono da sola.»
«Certo. Specialmente quando comincerò a farle qualche lavoretto. Per quel poco che ci conosciamo sospetto che sarà brava a mantenere il silenzio, ma loro sentiranno la sua sofferenza in altri modi. E verranno.»
Patrice fissò il terreno, sgomenta.
«Ero sicura che sarebbe arrivato qualcuno,» disse alla fine. «Ma pensavo che sarebbe stato un cacciatore, o qualche stronzo desideroso di fare fortuna o di andare al Tonight Show’. Ma lei non è nulla di tutto questo.»
«No,» disse. «Niente affatto.»
«Allora chi è?»
«Mi chiamo Paul,» disse. «A volte mi faccio chiamare Homo Erectus. E sto solo portando a termine quello che deve essere fatto.»
Capitolo ventisette
Avevo dormito per qualche tempo. Incredibile a dirsi, ma era un po’ come accade ai colpevoli che a volte si appisolano nella loro cella, dopo essersi momentaneamente liberati della tensione delle loro vite, sfociate in un’incarcerazione che non possono più evitare. Io provavo la stessa sensazione, nella consapevolezza dell’impossibilita di compiere un qualsiasi atto, saldamente legato com’ero a una sedia.
Una volta sveglio non riuscii più a riaddormentarmi. Essere sveglio era peggio. Mi permetteva di pensare e anche di tentare la fuga. Cercai di ribaltare la sedia usando la schiena per far saltare le gambe. Quando un movimento brusco rischiò di farmi cadere in avanti — garanzia di una frattura al viso e al collo — cessai le ostilità. Affanculo, non sono Jackie Chan.