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«Oh Cristo,» disse lei, incredula. «John…»

Poi sentì il rumore di qualcuno che atterrava delicatamente dietro di lei. La pistola le fu strappata, un braccio la afferrò per il collo e un gelido cerchio di metallo premette sulla sua tempia.

«Salve, agente Baynam,» disse una voce. «Ottimo lavoro.»

Capitolo trentuno

Corsi fin quasi in capo al mondo.

Se all’ultimo momento non mi fossi tenuto con la mano sinistra, sarebbe successo, avrei raggiunto quella sporgenza rocciosa e fatto un passo di troppo, precipitando nella notte senza fine. Lì, sospeso nel vuoto, ebbi una fugace visione dell’enorme salto, sentii il ramo piegarsi e udii il ruggire dell’acqua che si infrangeva da qualche parte, molto più in basso.

Mi sollevai, voltando in fretta le spalle al burrone, disperato e terrorizzato. I miei polmoni urlavano di dolore come se fossero stati riempiti di schegge di vetro.

Mi sporsi e vidi che ero sì arrivato alla gola, ma lontano dal punto esatto. Dove mi trovavo misurava più di dodici metri di larghezza, e le pareti erano così ripide e profonde che sembravano essere state prodotte da un gigante con un unico colpo d’ascia.

Siccome però era la gola che cercavamo, non potevo fare altro che tornare indietro.

Mi tenni a un paio di metri dal ciglio e mi feci strada tra gli arbusti. Gli alberi erano più piccoli in quel punto, ma la cosa non era di grande aiuto: significava solo che il sottobosco aveva più spazio a disposizione. Dopo non molto mi ritrovai di nuovo lontano dalla gola, obbligato a procedere lungo il percorso dal quale ero arrivato.

Mi sforzai in tutti i modi di avanzare, correndo quando era possibile, ma sempre lottando contro la corrente. Stavo cominciando a pensare che sarei stato costretto a tornare indietro, quando improvvisamente mi bloccai.

Stavo guardando attraverso le file di alberi che mi separavano dal burrone e mi sembrò di vedere qualcosa, un’apparizione alla sommità della gola. Mi diressi verso quel punto, consapevole che lì il salto sarebbe stato ancora proibitivo.

Quando arrivai lì, capii cosa avevo visto.

C’era un grosso tronco d’albero sospeso sul vuoto. Era caduto in modo tale da sembrare un ponte rudimentale. L’altra parte era molto più spaziosa ed era difficile non considerarlo come un invito.

Mi avvicinai all’estremità del tronco. Gli diedi un calcio per verificare la sua stabilità. La riva opposta sembrava offrirmi un percorso sicuro nella direzione in cui avrei dovuto andare, o almeno molto più vicino di quanto non fossi in quel momento. Alla sola condizione di riuscire ad attraversare tre metri e più di strapiombo al di sopra di rocce fredde e appuntite, passando su un tronco coperto da dieci centimetri di neve.

Rinunciai. Non sarei stato utile a nessuno con il cranio fratturato. Così mi voltai.

Poi sentii tre spari e una voce, che somigliava a quella di Nina, la quale produsse un suono che non era un urlo di trionfo.

Salii sul tronco e inspirai profondamente.

Non sapevo cos’altro fare se non attraversarlo di corsa.

Patrice osservava quanto stava accadendo davanti ai suoi occhi. Aveva visto Henrickson riguadagnare il fiume come se fosse stato in un film proiettato al contrario. Non aveva mai visto nessuno così agile e sicuro. Con un movimento fluido aveva disarmato la donna e puntato una pistola alla sua tempia.

Diede un calcio al fucile dell’altro uomo mandandolo nell’acqua, poi indietreggiò di qualche metro assieme alla donna fino a che non furono in mezzo al torrente.

L’uomo a terra sembrava sofferente, ma cercava di non darlo a vedere. Patrice sapeva che è un atteggiamento tipico degli uomini.

«Come sei arrivato qui, John?»

«Dravecky,» rispose l’uomo, senza nascondere una certa soddisfazione. «Persino gli psicopatici si vogliono liberare di te. Sei il rinnegato dei rinnegati. Non hai un posto dove andare.»

«C’è sempre un luogo,» disse Henrickson. «Trovare Dravecky e ucciderlo sarà il primo obiettivo. Il numero due sarà il suo amico della Sicurezza Nazionale a Los Angeles. Lo hai già incontrato, Nina?»

«Sì.»

«L’avevo immaginato. Non preoccuparti, sono molto meno importanti di quanto credano.»

Patrice vide l’uomo a terra muoversi improvvisamente. Aveva in mano una pistola, ma Henrickson si era mosso contemporaneamente, indietreggiando di altri due metri, e ora teneva la donna proprio davanti a sé, facendosi scudo col suo corpo.

«Cosa farai, John? Le sparerai per prendere me?»

Patrice osservò il volto di Nina e capì che la donna non sapeva che cosa avrebbe deciso l’uomo a terra. Nina cercò di muoversi per concedere a John la possibilità di tirare su qualcosa che non fosse una parte del suo corpo, ma l’uomo dietro di lei era agile e rapido.

«Cos’è più importante? Piazzarmi in corpo un proiettile per vendicare Karen e uccidere la tua amica? Forse dovrei risparmiarti la scelta e ucciderla subito.»

Zandt si era rimesso in piedi. La mano che teneva la pistola non sembrava molto ferma.

«Se la uccidi, io ti uccido,» disse.

Patrice era convinta che le speranze dell’uomo di battere Henrickson erano praticamente nulle. Sapeva che Henrickson ne era consapevole, ma sapeva anche che questo non avrebbe impedito all’altro di tentare lo stesso.

Poi si rese conto di una cosa: il suo aguzzino non aveva più guardato verso di lei.

Henrickson non l’aveva più degnata di uno sguardo da quando era ridisceso nella gola. Sapeva che questo non significava che si fosse dimenticato di lei. Era convinta che quell’uomo aveva il perfetto controllo della situazione, ma forse in quel momento le sue priorità erano altre.

Era in grado di farcela? Poteva saltare in avanti e gettarsi su di lui? Anche solo per sbilanciarlo quanto bastava per permettere all’altro di sparare?

Non ne era certa, ma pensò che fosse il caso di provare.

Lentamente stese le braccia. Le facevano male come se qualcuno la stesse infilzando con ferri incandescenti. Cercò di muovere i piedi e il risultato non fu incoraggiante, ma non importava molto. Non aveva bisogno di arrivare a lui, doveva solo creare l’effetto sorpresa.

Si spinse in avanti.

Non si mosse. Ritentò, ma era incapace di muoversi. Era come se qualcosa la tenesse inchiodata, era così irrigidita dal freddo, aveva le gambe così bloccate che…

No. C’era qualcosa che la teneva.

Girò lo sguardo. Qualcuno le aveva messo le mani sulle spalle. Voltò la testa lentamente.

Tom Kozelek era accovacciato dietro di lei. Aveva uno strano odore, e con le sue mani enormi la tratteneva dolcemente per le spalle, impedendole di muoversi.

Tranquilla, le disse in un sussurro. Arriva qualcuno.

Poi la lasciò e scomparve. Le sembrò di sentire un leggero sciabordio nell’acqua dietro di sé.

Non riusciva a muoversi, comunque. Dopo tutto, aveva le gambe congelate.

Avevo percorso i tre quarti del tronco, quando il mio piede scivolò. Come se avessi camminato sul ghiaccio calzando scarpe di ghiaccio. Stesi le braccia in avanti e pregai.

Atterrai sull’altro lato aggrappandomi a dei cespugli. Mi tirai su, mi feci strada tra rocce, radici e neve fino a quando trovai qualcosa su cui posare i piedi.

Cominciai a correre. I polmoni non mi facevano più male e neppure le costole, la schiena e la spalla. I miei piedi sentivano ogni passo come se stessi correndo su un levigato prato all’inglese; i cespugli si dileguavano come sogni nebbiosi e gli alberi si aprivano per rivelare un passaggio che era sempre stato lì, come se le montagne si fossero date la forma adeguata per accoglierlo. La mia visibilità era scarsa in mezzo alla neve che cadeva, ma sapevo dove dovevo andare — se fossi riuscito ad arrivare in tempo.