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«Perché? È una bella giornata?»

Vagammo per le strade vuote, bevemmo un paio di caffè, ridacchiammo dell’arte scadente. Passammo un paio d’ore sulla spiaggia, isolati dal mondo, in alcuni momenti l’uno accanto all’altra, in altri ognuno per conto suo. Osservammo le onde gigantesche che si frangevano sugli scogli, salutammo gli uccelli temerari che volteggiavano frenetici nel vorticoso caos sopra di noi. A metà pomeriggio il vento divenne così forte che potevi allungare le braccia e lasciarti andare, sicuro che ti avrebbe sorretto. Ed è quello che facemmo anche noi, mentre la sabbia ci turbinava intorno e il mondo girava.

Quando ricominciò a piovere trovammo riparo ai piedi di un’altra roccia e rimanemmo seduti a una breve distanza l’uno dall’altra, a contemplare il mare. Mi resi conto in quel momento del perché siamo sensibili al rumore delle onde, alla pioggia che cade e al vento tra gli alberi. Perché non hanno significato. Non hanno nulla a che fare con noi. Sfuggono al nostro controllo. Ci ricordano un tempo lontano, agli albori della nostra esistenza, quando non comprendevamo i rumori intorno a noi, ma li accettavamo; e loro ci confortavano, consolandoci per i nostri continui tentativi di cambiare il mondo mediante atti di magia o pensieri senza fine. Un suono senza significato, che amiamo in contrapposizione all’angoscia dell’azione, del bisogno di creare dei modelli, dello sforzo di comprendere e cambiare le cose. Non appena cominciammo a fabbricare qualcosa e a usarlo per uno scopo ben preciso, fummo beati e dannati al tempo stesso. La capacità di creare utensili ci ha dato il mondo, ma ci ha fatto perdere il senno.

Non facemmo nulla per un’ora; eravamo due persone ai margini di un mondo a cui volgevamo le spalle. Quando divenne buio, tornammo in albergo. Mi feci una doccia, mi cambiai e poi percorsi la passerella di legno per andare a bussare alla porta di Nina.

«Ehi,» disse.

«Ti va un drink?»

Sollevò un sopracciglio. «È una specie di appuntamento, o qualcosa di simile?»

«No,» risposi. «Niente di tutto questo.»

A qualche strada di distanza trovammo un posto chiamato Red’s Tavern, dove si potevano bere le birre che venivano fatte al piano di sopra. Dopo un po’ il locale si riempì di gente del posto e alla fine una band scalcinata si materializzò in fondo al locale: un paio di chitarre, un lap-steel, un violino, un washboard. Suonarono per un po’, andando e venendo a seconda dell’ispirazione. Le luci erano basse e calde e per la prima volta mi resi conto che la donna seduta di fronte a me aveva dei riflessi ramati nei capelli. Ascoltammo la musica, battemmo le mani e cantammo come tutti gli altri, guardammo le bariste ballare e ridere dietro il bancone mentre riempivano i bicchieri di una birra così chiara da sembrare acqua di sorgente. Alla fine mi presi una porzione di chili che non era affatto male.

Quando ce ne andammo la band stava ancora suonando. Tornando in albergo, comprammo una bottiglia di vino in un negozio lungo la strada. Accendemmo il camino nella mia camera e aprimmo un po’ la finestra, così da poter sentire contemporaneamente il rumore delle onde e lo schioppettare del legno. Sedemmo per terra con la schiena appoggiata all’estremità del letto e parlammo a lungo, fino a tarda notte, senza accorgercene.

Continuammo a mettere legna nel camino perché non volevamo che il fuoco si spegnesse, ma alla fine la camera fu immersa nell’oscurità e divenne abbastanza calda perché non ci fosse più bisogno di parole.

Fu lei a fare la prima mossa.

Lei è fatta così.

Ringraziamenti

Un grande ringraziamento ai miei editor, Susan Allison e Jane Johnson, per la loro pazienza e il loro sostegno, e — per gli stessi motivi — ai miei agenti Ralph Vicinanza e Jonny Geller. Grazie ai miei editori per il loro grande appoggio; a Lavie e Ariel per il grande lavoro fatto sul web; a Nick Marston e Bob Bookman per l’area film; e a Phyllis Siefker, Franz Joseph, Melanine Nixon ed Ella Clark, il cui lavoro di non-fiction mi ha fornito frammenti di esperienza o ispirazione (mi scuso per quello che ne ho ricavato).

E finalmente, come sempre, il mio amore e la mia gratitudine vanno a Paula perché mi sopporta quando scrivo. E soprattutto quando non lo faccio.

FINE