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Restò seduta ancora un po’. Le sembrava che si stesse facendo più freddo, benché avesse smesso di tremare, e dopo un po’ si alzò in piedi e se ne andò a casa, lasciando le grucce dov’erano.

Era freddo in casa. Elizabeth accese il termostato e si mise a sedere al tavolo in cucina, ancora con la giacca addosso, aspettando che la temperatura s’alzasse. Quando non lo fece, le venne in mente che Paul aveva spento la caldaia, e andò a prendere una coperta nella quale si avvolse dopo essersi seduta sul divano. La caviglia non le faceva affatto male, ma era fredda al tatto. Quando suonò il telefono, non riuscì quasi a muoverla. Le ci vollero parecchi squilli prima di raggiungerlo.

«Pensavo che non avresti risposto,» le disse Paul. «Ti ho preso un appuntamento con un certo dottor Jamieson oggi pomeriggio alle tre. È uno psichiatra.»

«Paul,» disse. Sentiva così freddo che parlava a fatica. «Mi dispiace.»

«È un po’ tardi per le scuse, no?» disse lui. «Ho raccontato al dottor Brubaker che eri sotto l’effetto di antidolorifici. Non so se se l’è bevuta.» Riattaccò.

«Troppo tardi,» disse Elizabeth. Mise giù la cornetta. Il dorso della mano le si era ricoperto di cristalli di ghiaccio. «Paul,» cercò di dire, ma le labbra le si erano irrigidite per il freddo, e non ne venne fuori alcun suono.