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«Sì,» disse Elizabeth. «Me ne rendo conto.»

Aveva rialzato il termostato appena lui se ne era andato, ma non era servito a molto. Si mise indosso un maglione e l’impermeabile, e si diresse al campus.

La pioggia aveva smesso di scendere a un certo punto della notte, sul viale centrale, ancora bagnato, e una ragazza con l’impermeabile giallo salì sul marciapiede. Vi camminò per un po’, con la testa piegata, come se osservasse qualcosa per terra, poi tagliò attraverso il prato umido in direzione di Gunter.

Elizabeth entrò nella Carter Hall. La ragazza che la aveva aiutata il giorno prima era appoggiata al bancone e prendeva appunti da un libro. Indossava una gonna pieghettata e un maglione come quelli che Elizabeth aveva portato al college.

«I modelli dei vestiti che indossavamo a quei tempi sono di nuovo in voga,» le aveva detto Tib quando avevano pranzato insieme. «Quei completi abbinati maglione e gonna e quelle orribili scarpe col tacco basso che ci andavano sempre strette. E quei mocassini da quattro soldi.» Era arrivata a! terzo daiquiri alla pesca e la voce le si era calmata ogni volta di più, cosicché sembrava quasi la Tib di una volta. «E i vestiti da cocktail! Ti ricordi quell’abito color ruggine che avevi, con il collo rientrante e la gonna lunga con il disegno in rilievo? Mi è sempre piaciuto quel vestito. Ti ricordi quando me lo hai prestato per il ballo degli Angel Flight?»

«Sì,» disse Elizabeth, e prese il conto.

Tib provò a rimescolare il daiquiri alla pesca col ramoscello di menta, ma le sfuggì di mano e cadde in fondo al bicchiere. «Davvero, mi ci portò solo per essere gentile.»

«Lo so,» disse Elizabeth. «Allora, quanto devo pagare? Sei e cinquanta per le crépes e due per il vino. Vogliono anche la mancia qui?»

«Mi serve un altro modulo per la richiesta di lavoro,» spiegò Elizabeth alla ragazza.

«Ma certo.» Quando la ragazza andò a prenderlo negli schedari, Elizabeth notò che portava delle scarpe col tacco basso come quelle che aveva indossato lei al college. Elizabeth la ringraziò e infilò il modulo nella borsetta.

Di ritorno passò vicino al suo dormitorio. Il verme era ancora lì. Il marciapiede era quasi asciutto, e il verme era di un rosso più scuro del normale. «Avrei fatto meglio a metterlo nell’erba,» disse ad alta voce. Sapeva che era morto, ma lo prese e lo mise lo stesso nell’erba, perché nessuno lo schiacciasse. Era freddo al tatto.

Sandy Konkel giunse nel pomeriggio con indosso un completo pantalone di poliestere grigio. Aveva in testa una giacca bagnata da scuola superiore con le iniziali stampate sopra. «John mi ha prestato la giacca,» disse. «Io non ne avrei indossata nessuna oggi, ma John mi ha detto che mi sarei bagnata tutta. Era vero.»

«Forse è meglio che la indossi,» disse Elizabeth. «Mi dispiace che faccia così freddo qua dentro. Temo che ci sia qualche problema con la caldaia.»

«Io sto bene così,» disse Sandy. «Sai, ho scritto un articolo su tuo marito, che è stato nominato nuovo vice preside, e gli ho chiesto di te, ma non ha detto che avevi frequentato il college qui.»

Si era portata dietro un grosso quaderno di appunti. Lo aveva organizzato in sezioni etichettate. «Per prima cosa, potremmo anche sbrigare questa faccenda degli ex allievi, e poi si può chiacchierare. Questo lavoro di rappresentante degli ex allievi è davvero una rottura, ma ti dirò che ci provo un certo gusto a scoprire che ne è stato di tutti. Vediamo,» disse, scorrendo col pollice lungo le sezioni. «Trovato, disperso, disperso senza speranza, deceduto. Mi sa che tu sei fra i dispersi senza speranza, giusto? Va bene.» Tirò fuori una matita dalla borsetta. «Tu sei Elizabeth Wilson.»

«Sì,» disse Elizabeth. «Lo sono.» Quando era tornata a casa si era tolta il maglione leggero e ne aveva indossato uno pesante di lana, ma aveva ancora freddo. Si sfregò le mani sugli avambracci. «Vuole del caffè?»

«Sì,» rispose l’altra. Seguì Elizabeth in cucina e le chiese di Paul, del suo lavoro e se avevano figli, mentre Elizabeth preparava il caffè e tirava fuori la panna, lo zucchero e un vassoio di biscotti che aveva cucinato per la serata dopo il concerto.

«Ti leggo dei nomi dalla lista dei dispersi senza speranza, e se sai cosa è successo a qualcuno di loro, interrompimi. Carolyn Waugh, Pam Callison, Linda Bohlender.» Era arrivata diversi nominativi più avanti di Cheryl Tibner quando Elizabeth si rese conto che si trattava di Tib.

«Ho visto Tib l’estate scorsa a Denver,» disse. «Da sposata si chiama Scates, ma sta per divorziare, e non so se riprenderà il cognome da signorina.»

«Cosa fa?» chiese Sandy.

Beve troppo, pensò Elizabeth, e si è fatta crescere i capelli, ed è troppo magra. «Lavora per un agente di cambio,» disse, e andò a prendere l’indirizzo che le aveva lasciato Tib. Sandy se lo appuntò, sfogliò alla sezione etichettata “Trovato” e riscrisse di nuovo nome e indirizzo.

«Vuole dell’altro caffè, signora Konkel?» chiese Elizabeth.

«Ancora non ti ricordi di me, eh?» disse Sandy.

Si alzò in piedi e si tolse la giacca. Sotto indossava una camicetta grigia ricamata con le maniche corte. «Ero la compagna di stanza di Karen Zamora. Ti dice niente Sondra Dickeson?»

Sondra Dickeson. Aveva portato i capelli biondi pettinati a paggetto, e un maglione di cashmere bianco-neve abbinato a una gonna bianca con una tasca nascosta sotto la piega, scarpe nere coi tacchi e una collana di perle vere.

Sandy rise. «Ti saresti dovuta vedere in faccia. Ti ricordi di me, no?»

«Mi dispiace. Era solo che… Avrei dovuto…»

«Senti, non c’è problema,» disse. Bevve un sorso di caffè. «Almeno non hai detto, “Come hai fatto a ridurti così?” come Geraldine Brubaker.» Diede un morso a un biscotto. «Be’, non mi chiedi che ne è stato di Sondra Dickeson? È una bella storia.»

«Cosa le è successo?» disse Elizabeth. Improvvisamente sentì ancora più freddo. Si versò un’altra tazza di caffè e sedette di nuovo, con le mani strette intorno alla tazza per scaldarsi.

Sandy finì di mangiare il biscotto e ne prese un altro. «Be’, se ti ricordi, ero una con la puzza al naso ai quei tempi. Stavo andando al ballo serale dei Sigma Chi con Chuck Pagano. Te lo ricordi? Insomma, in ogni caso stavamo andando a quel ballo da qualche parte in aperta campagna, e lui fermò l’auto e diventò tutto tocca e abbraccia, e io mi infuriai perché mi stava rovinando la messa in piega e il trucco e uscii dalla macchina. E lui se ne andò. Quindi io me ne stavo lì, in quel luogo assolutamente deserto, in abito da sera e tacchi alti. Non avevo nemmeno preso la borsetta, e si sta facendo buio, e Sondra Dickeson ha tanta puzza al naso che non le viene nemmeno in mente di tornare a piedi in città o cercare un telefono o qualcosa del genere. No, semplicemente se ne sta lì in piedi come un’idiota nel suo abito di broccato e il mazzolino di orchidee appuntato al petto e le scarpe scollate di raso tinto e pensa: “Non può farmi questo. Chi si crede di essere?”»

Parlava di se stessa come se fosse stata un’altra persona, cosa che Elizabeth immaginava fosse vera, una bionda glaciale pettinata a paggetto, con un abito da sera come quello che Elizabeth aveva prestato a Tib per il Ballo del Raccolto, un corpetto di raso color ruggine e una gonna a campana fatta di broccato lavorato dello stesso colore. Dopo il ballo Elizabeth lo aveva regalato all’Esercito della Salvezza.

«E Chuck tornò indietro?» chiese lei.

«Certo,» rispose Sandy, aggrottando la fronte, e poi sogghignò. «Ma non abbastanza presto. Comunque, è quasi scuro e arriva un camion con le luci spente, si affaccia un tipo e dice: “Ciao bellezza, serve un passaggio?”» Sorrise rivolta alla tazza di caffè come se lo sentisse ancora mentre lo diceva. «Era orribile. I capelli gli arrivavano fino alle orecchie e aveva le unghie nere. Si pulì la mano sulla maglietta e mi aiutò a salire sul camion. Quasi mi staccò il braccio dal resto del corpo, e poi disse: “Pensavo là che avrei fatto un giro un minuto da queste parti e poi me ne sarei andato. Sai, sei fortunata ad incontrarmi. Di solito non vado in giro la notte perché ho le luci rotte, ma avevo una gomma a terra.”»