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Paul se ne andò al lavoro senza nemmeno fare colazione. La caviglia di Elizabeth si era gonfiata così tanto che quasi non riusciva a infilarsi le pantofole, ma si alzò lo stesso e preparò il caffè. I filtri erano ancora sul ripiano dove li aveva lasciati Geraldine Brubaker.

«Non ti bastava aver perso l’occasione di trovare lavoro, dovevi mettere nei guai anche me?»

«Mi dispiace per ieri sera,» disse. «Riempio oggi il modulo di richiesta per il lavoro e lo porto al campus. Quando la caviglia guarirà…»

«Dovrebbe essere caldo oggi,» disse Paul. «Ho spento la caldaia.»

Quando se ne fu andato, compilò la richiesta. Tentò di cancellare la macchia scura lasciata dal verme, ma non veniva via, e c’era un quesito che non riusciva a leggere. Le dita le si erano irrigidite per il freddo, e dovette fermarsi parecchie volte per alitarci sopra, riempiendo comunque tutte le domande che poté, poi piegò il foglio e lo portò al campus.

La ragazza con l’impermeabile giallo se ne stava alla fine del viale, e parlava con una ragazza che indossava l’uniforme degli Angel Flight. Zoppicò nella loro direzione a testa bassa, affrettando il passo, con il suono della bicicletta di Tupper nelle orecchie.

«Mi ha chiesto di te,» disse Tib, ed Elizabeth alzò gli occhi.

Non era affatto simile a come se la ricordava. Era leggermente sovrappeso e non tanto carina, il tipo di ragazza che non sarebbe riuscita a farsi invitare al ballo. I capelli corti facevano sembrare ancora più cicciottella la faccia rotonda. Sembrava speranzosa e un po’ preoccupata.

Non ti preoccupare, pensò Elizabeth. Sono qui. Non guardò se stessa. Si concentrò nel tentativo di raggiungerli al momento giusto.

«Gli ho detto che stavi alla casa degli Alpha Phi.» disse Tib.

«Oh,» sentì la sua stessa voce, e sotto di essa il ronzio di una bicicletta.

«Esco con questo tipo del CAUR. È assolutamente fantastico!»

Ci fu una pausa, poi la voce di Elizabeth disse: «Grazie tante,» ed Elizabeth si appoggiò con la punta di gomma della stampella contro una lastra di ghiaccio e cadde in terra.

Per un minuto fu accecata dal dolore. Si è rotta, pensò, e strinse i pugni per trattenere le urla.

«Tutto bene?» chiese Tib, inginocchiandosi davanti a lei e coprendole del tutto la vista. No, non tu! Non tu! Per un minuto ebbe paura che non avesse funzionato, che la ragazza si fosse voltata e se ne fosse andata. Ma d’altra parte, quella non era una sconosciuta ma solo se stessa, troppo buona per lasciare affogare un verme. Aveva solo girato dietro ad Elizabeth, da dove non la poteva vedere. «Se l’è rotta?» disse. «Non so, devo chiamare un ambulanza?»

No. «No,» disse Elizabeth. «Va tutto bene. Dovreste solo aiutarmi a rimettermi in piedi.»

La ragazza che era stata Elizabeth Wilson poggiò i libri sulla panchina di cemento, si avvicinò e si inginocchiò vicino ad Elizabeth. «Spero che non crolliamo l’una sull’altra,» disse, e le sorrise. Era carina. Non lo sapevo nemmeno io, pensò Elizabeth, nemmeno quando me lo disse Tupper. Le afferrò un braccio mentre Tib la sostenne dall’altra parte.

«Vedo che avete fatto inciampare di nuovo dei passanti innocenti. Quante volte vi ho detto di non farlo?» Finalmente ecco Tupper. Aveva appoggiato la bici nell’erba e aveva lasciato la busta di Tupperware lì vicino.

Tib e la ragazza che era stata lei stessa la lasciarono e si fecero da parte, e lui le si inginocchiò vicino. «Non sono cattive, davvero. Sono solo un po’ mattacchione. Ma con le bucce di banana siete andate troppo in là, ragazze,» disse, tanto vicino a lei che poteva sentirne l’alito sulla guancia. Si girò per guardarlo, temendo all’improvviso che anche lui potesse essere diverso, ma era solo Tupper, che aveva amato per tutti quegli anni. La cinse con un braccio. «Adesso deve solo mettermi il braccio intorno al collo, tesoro. Ecco, così. Elizabeth, vieni qui e fai ammenda dei tuoi peccati aiutando questa bella signora ad alzarsi.»

Lei aveva già raccolto i libri e se li teneva stretti al petto, con l’aria di chi è arrabbiato e non vede l’ora di andarsene. Guardò Tib, ma Tib stava raccogliendo le stampelle, con la schiena curva sui tacchi alti perché la gonna stretta degli Angel Flight le impediva di piegarsi.

Rimise di nuovo i libri in terra e si spostò dall’altro lato di Elizabeth per sostenerle il braccio, e invece Elizabeth le afferrò la mano e la strinse forte in modo che non se ne andasse. «L’ho portata al ballo perché mi aveva aiutato con la riunione Tupperware. Le ho detto che le dovevo un favore,» spiegò lui, ed Elizabeth si voltò a guardarlo.

Ma lui in effetti non la stava guardando. Guardava oltre, in direzione dell’altra Elizabeth, quella che non rispondeva al telefono, non andava alla finestra, ma sembrava che guardasse proprio lei, e su quel viso giovane ancora vivo nel suo ricordo c’era l’espressione di un amore così nudo e vulnerabile che la colpì con la violenza di un pugno.

«Te l’avevo detto,» disse Tib. Appoggiò le stampelle contro la panchina.

«Sono sicura che alla signora non interessano certe faccende,» disse Elizabeth.

«Te l’avrei spiegato alla festa, ma quell’idiota di Sharon Oberhausen…»

Tib le portò le stampelle. «Dopo averglielo chiesto, mi sono domandata: “E se pensasse che sto provando a portarle via il ragazzo?” e mi sono preoccupata così tanto che avevo paura di dirtelo. Davvero, gli ho chiesto di portarmici solo per non essere di servizio durante il fine settimana. Cioè, non è che lui mi piaccia o cose del genere.»

Tupper fece un sorrisetto a Elizabeth. «Provo a pagare i miei debiti, e questo è il modo in cui vengo ringraziato. Lei non si arrabbierebbe con me se portassi la sua compagna di stanza a un ballo, no?»

«Forse sì,» rispose Elizabeth. Sentiva freddo, seduta lì sul cemento. Stava cominciando a tremare. «Ma ti perdonerei.»

«Vedi?» disse.

«Capisco,» disse Elizabeth disgustata, ma gli stava sorridendo. «Non credi che dovremmo togliere questa passante innocente dal marciapiede prima che muoia assiderata?»

«Op-là, tesoro,» fece Tupper, e con un agile movimento la alzò e la mise a sedere sulla panchina di pietra.

«Grazie,» disse lei. Batteva i denti dal freddo.

Tupper le si inginocchiò davanti ed esaminò la caviglia.

«Mi sembra bella gonfia,» disse. «Vuole che chiamiamo qualcuno?»

«No, passerà mio marito a minuti. Rimango a sedere qui finché non arriva.»

Tib raccolse la richiesta di Elizabeth dalla pozzanghera. «Mi sa che si è rovinata,» disse.

«Non fa niente.»

Tupper prese la busta con le scatole. «Senta un po’,» le chiese, «non è che le interessa una riunione Tupperware? Come padrona di casa potrebbe guadagnare punti preziosi per…»

«Tupper!» esclamò Tib.

«Vuoi lasciare in pace questa povera signora?» disse Elizabeth.

Tirò su la busta. «Solo se vieni con me a consegnare gli scomparti per l’insalata al palazzo dei Sigma Chi.»

«Io vengo,» disse Tib. «C’è un tesoro dei Sigma Chi che voglio conoscere.»

«E vengo anch’io,» disse Elizabeth, mettendo un braccio intorno a Tib. «Non mi fido dei ragazzi che ti trovi da sola. Jim Scates è davvero un bastardo. Sharon non ti ha detto quello che ha fatto a Marilyn Reed?»

Tupper lasciò la busta con le scatole a Elizabeth mentre tirava su la bicicletta. Elizabeth la passò a Tib.

«È sicura di star bene?» le chiese Tupper. «È freddo qua fuori. Potrebbe aspettare suo marito nella sede dell’associazione studentesca.»

Avrebbe tanto voluto mettergli la mano sulla guancia per una sola volta. «Sto bene così,» disse.

I tre scesero per il viale in direzione di Frasier, con Tupper che portava a mano la bici. Quando si trovarono al livello della Carter Hall, tagliarono attraverso il prato verso Frasier. Li guardò finché non scomparvero dalla vista, poi rimase a sedere un altro po’ sulla panchina. Aveva sperato che potesse succedere qualcosa, qualcosa che indicasse che li aveva salvati, ma non successe nulla. La caviglia non le faceva più male. Aveva smesso di dolerle nel momento in cui Tupper l’aveva toccata.