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Mentre Rachel tornava in città, cominciò a piovere a dirotto. Aveva la mente occupata da ciò che l’aspettava il giorno seguente: la ricerca delle lettere di Danny. Con un po’ di fortuna, Garrison sarebbe stato a messa com’era solito fare la domenica: ora aveva un motivo più che valido per ringraziare Dio e fare il bravo ragazzo cattolico. Nel frattempo lei si sarebbe recata alla Trump Tower e si sarebbe messa in cerca delle lettere e delle foto. Se non avesse trovato niente al primo tentativo, avrebbe dovuto aspettare un’altra settimana per essere sicura che Garrison non fosse in casa, altrimenti avrebbe dovuto informarsi sui suoi spostamenti. Sarebbe stato difficile introdursi nella Trump Tower senza che qualcuno la notasse. I giornalisti avrebbero continuato a ronzare attorno all’edificio ancora per un po’; e naturalmente ci sarebbero stati i domestici, anche se qualcuno le aveva raccontato che due delle cameriere se n’erano andate subito dopo l’omicidio di Margie e che la terza aveva cominciato a raccontare di tutto ai peggiori giornali scandalistici e con ogni probabilità era già stata licenziata.

In definitiva, le sarebbe servita solo un po’ di fortuna e avrebbe dovuto avere un’ottima scusa pronta per spiegare la sua presenza se qualcuno l’avesse scoperta nell’appartamento. Ma il fatto era che si sentiva assurdamente eccitata al pensiero di quella ricerca. Per troppo tempo era stata solo un oggetto, una parte insignificante del grandioso schema dei Geary. Persino il suo viaggio a Kaua’i era stato organizzato da un membro della famiglia. Aiutando Danny — o almeno, provando ad aiutarlo — si stava liberando del ruolo che le era stato assegnato; il suo solo rimpianto era di non averlo fatto prima. Le seduzioni del lusso.

Così ora Rachel non poteva fare a meno di chiedersi se anche Galilee, il principe del suo cuore, non fosse stato parte di quelle seduzioni. Quel lusso esagerato le era stato offerto per impedirle di vedere cose che non avrebbe dovuto vedere? Come avrebbe voluto poter parlare con Margie, condividere con lei le sue elucubrazioni. Margie era sempre riuscita ad arrivare al cuore di ogni problema, spogliandolo di tutte le apparenze. Che cosa avrebbe pensato delle teorie di Rachel? Probabilmente che erano irrilevanti e che non potevano aiutarla in nessun modo. Che il suo tentativo di comprendere il grande disegno rifletteva un’illusione prettamente maschile: la convinzione che gli eventi potessero essere modellati e diretti secondo la propria volontà. Ma la filosofia di Margie era stata molto diversa. Secondo lei, gli unici aspetti della vita che potevano davvero essere controllati erano le piccole cose, come il numero delle olive nel Martini o l’altezza dei tacchi delle scarpe. E gli uomini che la pensavano diversamente — i potenti e i plutocrati — prima o poi sarebbero andati incontro a una terribile delusione; una certezza che le aveva dato non poco piacere.

Forse nell’aldilà le cose non funzionavano così, pensò Rachel. Forse il Grande Disegno era oggetto di chiacchiere quotidiane e gli spiriti dei morti amavano studiare i vasti schemi del comportamento umano. Ma ne dubitava. Certamente, non riusciva a immaginare Margie interessarsi più di tanto a questioni del genere. Forse il destino era materia di dibattito da qualche parte nel cielo, ma sicuramente il luogo in cui si trovava Margie era affollato di allegri edonisti che si divertivano a prendere in giro i teorici e i filosofi del fato.

Quel pensiero la fece sorridere; il primo sorriso di quella lunga, infelice giornata. Margie si era guadagnata la libertà. Che la sua sofferenza fosse stata autoinflitta o meno, il punto era che l’aveva sopportata senza smarrire la dolce anima che era stata prima che i Geary la trovassero. Margie l’aveva fatta sembrare una cosa semplice ma, come Rachel aveva scoperto, era un’impresa ardua. Il mondo era come un labirinto in cui era facile perdersi, abbandonare la propria identità. Rachel era stata fortunata. Aveva riscoperto se stessa sull’isola; aveva trovato la Rachel selvaggia, la donna di carne e sangue e appetito. Per quanto oscuro potesse diventare il labirinto o minacciosi i suoi occupanti, non avrebbe mai più lasciato andare la creatura che era diventata; non adesso che Galilee l’amava.

Sette

Domenica mattina, la pioggia era più scrosciante che mai, così fitta che talvolta si faticava a vedere a più di un isolato di distanza. Se c’erano stati dei fotografi in attesa attorno alla Trump Tower, avevano cercato riparo altrove mentre l’oggetto delle loro attenzioni era a messa; o forse lo avevano seguito. Margie aveva dato a Rachel una chiave dell’appartamento quando si erano presentate le prime difficoltà con Mitchell, dicendole di usarlo a suo piacimento.

“Garrison non è quasi mai a casa”, le aveva detto, “quindi non devi preoccuparti di sorprenderlo mentre è ancora in mutande. Il che è comunque uno spettacolo notevole.”

A Rachel non era mai piaciuto quell’edificio e nemmeno l’appartamento. Le sembrava un posto piuttosto deprimente nonostante lo sfarzo, anche nelle giornate di sole. E, in una mattina piovosa come quella, era cupo e malinconico. Il fatto che le stanze fossero arredate con mobili antichi e che le pareti fossero soffocate dai grandi, inutili quadri che Garrison aveva comprato nei primi anni Ottanta sperando di fare un investimento, rendeva tutto ancora più desolante.

Restò in attesa nell’atrio per qualche istante, cercando di capire se c’era qualcuno in casa. Ma i soli rumori che sentiva venivano da fuori; la pioggia che batteva sulle finestre, il gemito lontano di una sirena. Era sola. Era ora di cominciare.

Salì le scale, addentrandosi in un territorio ancora più buio. In cima alla rampa c’era una pendola antica e trasalì quando la scorse, immaginando per un attimo che si trattasse di Garrison. Si fermò per qualche secondo mentre i battiti del suo cuore rallentavano. Ho paura di lui, pensò. Era la prima volta che lo ammetteva: aveva paura di ciò che Garrison avrebbe potuto farle se l’avesse scoperta lì. Una cosa era ascoltare Loretta che parlava delle sue perversioni o vederlo pallido e debole davanti alla bara di Margie; un’altra era immaginare di incontrarlo lì, nel luogo in cui aveva massacrato sua moglie. Che cosa gli avrebbe detto se di colpo se lo fosse trovato davanti? Aveva pronta una sola menzogna plausibile? Probabilmente no. In quel momento, in piedi in cima alle scale, Rachel era assolutamente convinta che Garrison avrebbe ucciso anche lei, se lo avesse ritenuto necessario.

Ripensò a ciò che Mitchell le aveva detto due giorni prima; quel commento sui rischi che avrebbe corso se non ci fosse stato lui a proteggerla. Non era stata una minaccia a vuoto. Anche lei era sacrificabile, proprio come Margie.

“Calmati”, mormorò a se stessa. Quello non era né il luogo né il momento per riflettere sulla sua vulnerabilità.

Doveva fare ciò che era venuta a fare e andarsene il più in fretta possibile. Sfidando il volto pallido della pendola (che non funzionava fin dagli ultimi anni della guerra civile, le aveva detto Margie una volta), raggiunse il secondo piano. Lì si trovavano le stanze di Margie: il salotto, la camera da letto e il bagno in cui era morta.

Rachel aveva deciso di non entrare nel bagno a meno che non avesse trovato niente nelle altre stanze, ma ora, ferma sul pianerottolo, si rese conto che la vicinanza di quel luogo l’avrebbe ossessionata per il resto dei suoi giorni a meno che non l’avesse affrontato. Accese la luce ed entrò in camera da letto. Gli investigatori avevano lasciato la stanza nel caos più totale; dovevano averla passata al setaccio in cerca di prove. Quello era l’unico luogo in tutta la casa decorato da quadri che riflettevano i gusti eclettici di Margie: uno Chagall, un Pissarro che ritraeva un villaggio francese, due Kandinsky. A creare uno strano contrasto con tutto quel colore, c’erano anche due Elegie di Motherwell, forme spoglie e nere su sfondi bianco sporco, appese come memento mori gemelli alla destra e alla sinistra del letto.