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Rachel scavalcò i molti cassetti che erano stati abbandonati sul pavimento dai poliziotti e si diresse verso la porta del bagno. Quando afferrò la maniglia, il cuore prese a martellarle nel petto, ma lei cercò di non farci caso e aprì la porta.

Era un ambiente spazioso, tutto marmo rosa e decorazioni dorate; la vasca da bagno, in cui Margie aveva amato immergersi, era enorme. “Mi fa sentire come una puttana da un milione di dollari”, le aveva confidato, divertita.

Dovunque si notavano innumerevoli segni della sua presenza. Bottiglie di profumo e posacenere, una foto di suo fratello Sam infilata nella cornice di uno specchio veneziano, un’altra fotografia (di Margie con indosso della costosa biancheria intima, scattata da un fotografo alla moda) appesa accanto alla porta della doccia. La polizia era stata anche lì. Tracce di polvere per il rilevamento delle impronte digitali sul marmo nero; avanzi di pizza — presumibilmente consumata dagli investigatori mentre erano al lavoro — in una scatola unta vicino alla vasca da bagno. Il contenuto dei cassetti era stato esaminato con estrema cura e sparpagliato su ogni superfìcie disponibile. Una pletora di bottigliette di medicinali, un piccolo specchio quadrato, una lametta (probabilmente conservata per ragioni sentimentali: Margie aveva smesso di usare cocaina diversi anni prima) e una collezione di oggetti sessuali: un piccolo vibratore rosa, una confezione di lubrificante profumato alla ciliegia, alcuni preservativi.

Rachel fu turbata da quello spettacolo. Non poteva evitarsi di immaginare gli agenti che sogghignavano frugando nei cassetti, facendo battute di dubbio gusto su Margie. A lei sicuramente non sarebbe importato.

Aveva visto abbastanza. Non sarebbe più stata ossessionata da quel luogo; tutto il potere che avrebbe potuto avere su di lei era scomparso. O almeno così pensò finché non andò a spegnere la luce. Là, sulla parete, c’era una macchia scura. Si disse di distogliere lo sguardo ma i suoi occhi non le obbedirono e si spostarono su un’altra macchia di sangue secco, ancora più grande. La toccò. Il sangue le si sbriciolò sotto i polpastrelli, come vernice vecchia. Era il sangue di Margie. E ce n’era altro, molto altro, di cui fino a quel momento non si era accorta, sul marmo screziato.

Di colpo, non le importò più che i poliziotti avessero sporcato quella stanza con la loro pizza e le loro dita invadenti. Margie era morta lì. Oh, Dio del cielo, Margie era morta lì. Quello era il suo sangue: una macchia vicino alla spalla di Rachel, dov’era caduta o forse dove si era aggrappata per impedirsi di cadere, una macchia più ampia sul pavimento, proprio tra i piedi di Rachel, scura quasi quanto il marmo.

Distolse lo sguardo, in preda alla nausea, ma le difese che aveva eretto per impedirsi di immaginare la scena avevano irrimediabilmente ceduto. Adesso quella scena era davanti a lei in ogni suo orrido dettaglio. Il suono dei colpi che rimbalzava sul marmo, sugli specchi; l’espressione di incredulità sul volto di Margie mentre cercava di sfuggire a suo marito; il sangue che le scorreva tra le dita, gocciolando sul pavimento.

Che cosa aveva fatto Garrison quando i colpi erano stati esplosi? Aveva gettato via la pistola ed era caduto in ginocchio accanto a lei? Oppure aveva barcollato fino al telefono per chiamare un’ambulanza? Più probabilmente aveva chiamato Mitchell o un avvocato; aveva ritardato il più possibile ogni richiesta d’aiuto per essere certo della morte della moglie.

Rachel si coprì il viso con le mani ma quell’immagine si rifiutava di abbandonarla. Pulsava davanti a lei: il volto di Margie, la bocca spalancata, le mani che si agitavano, il corpo derubato di ogni movimento o di ogni prospettiva di movimento, che si scuriva a poco a poco per il sangue.

“Smettila”, si impose.

Avrebbe voluto uscire dal bagno senza guardare, ma sapeva che sarebbe stata una pessima idea. Doveva affrontare ciò che aveva visto. L’unica cosa che poteva ferirla lì era la sua stessa superstizione.

Con riluttanza, si scoprì il viso e si costrinse a osservare di nuovo la scena. Prima il lavandino, poi lo specchio e la vasca da bagno. Infine il sangue sul pavimento. Solo allora si voltò e lasciò la stanza.

E ora, dove? La camera da letto era davanti a lei, con tutti i cassetti accatastati a terra. Avrebbe potuto passare ore a setacciarla, ma sarebbe stato assurdo. Se le lettere erano lì, erano state nascoste tanto bene da sfuggire anche alla polizia e quindi era improbabile che lei riuscisse a trovarle.

Si diresse invece verso il salotto. Controllò l’ora. Era lì già da dodici minuti. Non aveva tempo da perdere.

Aprì la porta del salotto e arretrò immediatamente, quando Didi, il carlino di Margie, le si avventò contro, abbaiando con la ferocia di un cane tre volte più grande di lui.

“Shh, shh!” Rachel si chinò per farsi annusare la mani. “Sono io.”

Didi smise di abbaiare all’istante e cominciò a scodinzolare, zampettandole attorno. Lei non si era mai curata molto di quel cane, ma ora le faceva tenerezza. Senza dubbio si stava chiedendo dove fosse finita la sua padrona e stava interpretando la presenza di Rachel come un segno del suo ritorno.

“Vieni con me”, disse al cane. Didi obbedì, seguendola in salotto dove un piatto di cibo per cani non mangiato e un giornale sporco di escrementi testimoniavano il suo dolore. Il resto della stanza era in condizioni migliori rispetto al bagno e alla camera da letto. O la polizia non l’aveva esaminata a dovere, o a esaminarla era stata una donna.

Rachel non perse tempo. Perlustrò il salotto, aprendo ogni cassetto, controllando ogni mobile. C’erano diversi luoghi dove potevano essère state nascoste le lettere — schiere di libri (romanzi rosa perlopiù), pile di programmi di spettacoli di Broadway, persino una serie di lettere (tutte di associazioni benefiche che imploravano l’aiuto di Margie) — ma niente di anche solo vagamente sospetto. Didi le rimase vicino per tutto il tempo, determinato a non perdere la sua nuova amica ora che era con lui. Solo una volta la lasciò e si diresse verso la porta scodinzolando come se avesse sentito qualcuno in casa. Rachel si fermò e si avventurò sul pianerottolo, le orecchie tese come quelle del cane ma, evidentemente, era stato solo un falso allarme. Tornò alla sua ricerca, controllando di nuovo l’ora. Era rimasta mezz’ora in sala; non poteva rischiare di trattenersi ancora per molto. Ma se se ne fosse andata a mani vuote, avrebbe avuto il coraggio di tornare? Non sarebbe stato per niente facile; non ora che sapeva cosa l’aspettava in quella casa: il sangue, l’oscurità, l’abbandono.

Quando tornò nel salotto, Didi non era più accanto a lei. Rachel lo chiamò ma lui non venne. Lo chiamò ancora e questa volta sentì un rumore umido che proveniva dal fondo della stanza. C’era un’altra porta che si apriva su un piccolo bagno che riusciva a malapena a contenere un water e un lavandino. In qualche modo Didi era riuscito a salire sulla tavoletta e stava bevendo l’acqua del water, uno spettacolo allo stesso tempo triste e assurdo. Lei gli disse di scendere. Lui sollevò la testa e le rivolse uno sguardo interrogativo. Lei gli ripeté di scendere e questa volta il cane obbedì e uscì dal bagno.

Rachel si guardò attorno: non c’erano possibili nascondigli tranne il piccolo mobile che racchiudeva il lavandino. Si chinò e lo aprì. Sapeva di disinfettante. C’era un piccolo assortimento di detergenti e di rotoli di carta igienica. Rachel li spostò sul pavimento e scrutò tra le ombre. I tubi che sporgevano dal lavandino erano umidi, ma c’era qualcos’altro lì sotto; qualcosa che era stato avvolto in un pezzo di carta. Allungò una mano e afferrò l’oggetto, ma era incastrato tra un tubo e il muro dall’intonaco ammuffito e non riuscì a smuoverlo. Imprecò, facendo scappare Didi che era ritornato per vedere cosa stava succedendo. All’improvviso, l’oggetto si spostò e le sue dita fredde non furono abbastanza veloci per afferrarlo prima che cadesse a terra. Ci fu il suono attutito di una bottiglia che andava in frantumi e un forte odore di brandy impregnò il mobiletto. Chiaramente quella era una bottiglia che Margie aveva nascosto durante uno dei suoi inutili tentativi di smettere di bere. Didi era tornato e stava annusando il liquore.