Uno
Marietta è venuta a farmi visita ieri notte. Mi ha portato della cocaina che ha detto di aver acquistato a Miami e mi ha assicurato che era della migliore qualità. Mi ha anche portato una bottiglia di Benedictine, insieme alle istruzioni su come sciogliere la droga nel liquore per creare, mi ha promesso, un intruglio molto potente. Era ora che ci avventurassimo fuori insieme, secondo lei; e quella miscela mi avrebbe messo dell’umore adatto. Io le ho detto che non avrei potuto andare da nessuna parte. Avevo troppe idee in testa; fili della mia storia che dovevo seguire per impedire che si ingarbugliassero.
“Lavorerai meglio dopo un po’ di svago”, mi ha fatto notare.
“Certamente è così, comunque la risposta è no.”
“Qual è la vera ragione?” ha voluto sapere.
“Be’ ”, ho detto, “il fatto è che… sto per cominciare a scrivere di Galilee e ho paura che se mi fermassi adesso — prima ancora di aver affrontato questa parte — non riuscirei più a ricominciare.”
“Non ti capisco”, ha commentato Marietta. “Pensavo che scrivere di lui sarebbe stato meraviglioso.”
“È una prospettiva che mi intimidisce.”
“Come mai?”
“Perché è stato così tante persone in vita sua. Ha fatto così tanto. E ho paura che non riuscirò a catturarlo; ho paura che finirà per sembrare soltanto un ammasso di contraddizioni.”
“Forse è proprio quello che è”, ha detto lei, saggiamente.
“I lettori penseranno che l’errore è mio”, ho protestato.
“Oh, Eddie, è soltanto un libro.”
“Non è… soltanto un libro. È il mio libro. È un’opportunità di raccontare qualcosa che nessuno ha mai raccontato.”
“Va bene, va bene”, ha detto lei, sollevando le mani in segno di resa, “non agitarti tanto. Sono sicura che sarà fantastico.”
“Sta’ zitta. Mi metti in imbarazzo.”
“Oddio. E allora cosa posso dire?”
“Assolutamente niente. Lasciami lavorare e basta.”
Ma non le ho detto tutto. Sì, avevo paura dell’argomento che mi aspettava — di Galilee — ed ero nervoso al pensiero che, se avessi perso il ritmo della storia, non mi sarebbe stato facile ritrovarlo con la sua apparizione sempre più vicina. Ma avevo ancora più paura di accompagnare Marietta oltre i confini della casa, di tornare nel mondo dopo così tanti anni. Avevo paura di trovare ciò che mi aspettava là fuori così affascinante che sarei stato come un bambino perduto. Avrei pianto, avrei tremato, mi sarei bagnato i pantaloni. Per quanto tutti questi pensieri possano sembrare ridicoli a voi che vivete nel cuore delle cose e presumibilmente date per scontato tutto quello che vedete e ogni vostra esperienza, per me erano preoccupazioni assolutamente reali. Come ricorderete, ero stato una sorta di prigioniero volontario dell’Enfant per così tanto tempo da diventare simile a un uomo che ha vissuto in una piccola cella per gran parte della sua vita e che quando viene rilasciato — anche se per decenni e decenni non ha sognato altro che spazi aperti — viene colto dal terrore alla vista del suo sogno, all’idea di essere spogliato delle pareti della sua prigione.
In breve, Marietta mi ha lasciato di pessimo umore, con la sensazione che non avrei potuto trovare conforto in niente. Se fossi rimasto, avrei affrontato Galilee. Se fossi andato, avrei affrontato il mondo. (Il che implica, ripensandoci ora, che Galilee è tutto ciò che il mondo non è e viceversa. Quindi, senza volere, ho detto una grande verità sul suo conto.)
Per procrastinare il momento in cui avrei dovuto tornare a scrivere, ho deciso di sperimentare gli effetti dell’afrodisiaco lasciatomi da Marietta. Seguendo le sue istruzioni, ho versato una certa quantità di Benedictine in un bicchiere e poi, dopo aver aperto il sacchetto di cocaina, ho scelto un piccolo grumo di polvere bianca e l’ho lasciato cadere nel liquore. Ho rimescolato il tutto con la penna. La cocaina non si è sciolta completamente e ho ottenuto soltanto un liquore leggermente rannuvolato. Ho brindato al mio testo che aspettava là sulla scrivania davanti a me, e ho bevuto la mistura. Mi ha bruciato la gola e il mio primo pensiero è stato che avevo commesso un grave errore. Mi sono seduto con gli occhi pieni di lacrime. Potevo sentire la traccia del liquore giù lungo l’esofago, o almeno così immaginavo, fino alle pareti dello stomaco dove bruciava ancora.
“Marietta…” ho ringhiato. Ma perché davo ascolto a quella dannata lesbica? Era del tutto inaffidabile. Ma non appena ho mormorato il suo nome, la droga ha cominciato a fare effetto. Ho provato un piacevole senso di calore alle membra; e una sorta di improvvisa chiarezza nei pensieri.
Mi sono alzato, sentendo un’ondata di energia avvolgermi gli arti inferiori. Avevo bisogno di allontanarmi dalla mia stanza, di uscire nel fresco della sera. Avevo bisogno di camminare per un po’ sotto i rami dei castagni, di riempirmi la mente dei profumi della notte. Solo allora avrei potuto tornare al lavoro, pronto ad affrontare Galilee.
Due
Prima di andare mi sono preparato un altro bicchiere di liquore, aumentando la quantità di cocaina. Ma non l’ho bevuto subito, l’ho portato con me giù per le scale e fuori, attraverso una porta laterale, sul prato. La serata era bellissima, calma e dolce. Le zanzare erano uscite in forze, ma la coca e il brandy mi avevano reso indifferente ai loro assalti. Mi sono avventurato tra gli alberi fino a raggiungere i luoghi in cui la cura del giardino cede il passo al glorioso disordine della palude. Lì, il profumo mielato dei fiori del giardino viene sopraffatto da aromi più intensi: le fragranze mescolate della putredine e dell’acqua stagnante.
Gradualmente i miei occhi si sono abituati alla luce delle stelle e al chiarore di quei soli lontani che scorgevo oltre il fitto degli alberi. Ho osservato gli alligatori, alcuni sulla riva, alcuni intenti a nuotare pigramente nelle acque scure; ho osservato i pipistrelli solcare il cielo sopra di me.
Vi prego di capire che il piacere che ho provato per quello spettacolo — gli animali notturni, gli alberi putrefatti, il miasma generale — non aveva niente a che fare con la cocaina. Ho sempre amato i paesaggi e le specie che la gente comune tende a considerare sgradevoli se non addirittura di cattivo auspicio. Parte di questo piacere è puramente estetico; ma un’altra parte è dovuta all’empatia che provo verso la natura più cruda, non addomesticata, perché forse anch’io mi sento così. L’odore del mio corpo è forte, non dolce, e il mio aspetto è decadente, non fresco.
Comunque, eccomi, intento a vagare lungo il limitare del prato, a scrutare la palude e a godermi quella vista. Avevo portato con me il bicchiere senza berne neanche un sorso (talvolta la parte migliore di una droga — così come di molte altre cose — non è nella sua consumazione ma nell’attesa della consumazione). Ne ho bevuto un sorso. Era notevolmente più forte del primo bicchiere. Anche mentre mi scivolava lungo la gola, ho avuto l’impressione di sentire il mio corpo che reagiva alla sua presenza: la stessa agitazione nelle mie membra, la stessa accelerazione dei miei pensieri. Ho sentito dire che quest’ultimo effetto non è altro che un’illusione, che la cocaina non fa altro che ingannare la mente convincendola che sta funzionando più in fretta quando invece non fa altro che girare su se stessa. Mi permetto di dissentire. Grazie alla polverina bianca, mi è capitato di compiere notevoli esercizi intellettuali che non hanno niente da invidiare alle mie riflessioni pure e semplici, fatte in condizioni normali.
Ma ieri sera non avrei potuto discutere con qualcuno nemmeno se ne fosse andato della mia vita. Forse era la potente mistura di cocaina e Benedictine; forse era il fatto di trovarmi là fuori, solo, circondato dalla natura; forse era semplicemente una sorta di prontezza dentro di me, ma mi sono sentito d’improvviso eccitato. La testa mi pulsava piacevolmente, il cuore mi batteva forte nel petto, quasi che si stesse preparando per qualcosa, e il mio cazzo che, a parte il giorno della visita di Cesaria, era rimasto tranquillo per molti mesi, si era drizzato nei pantaloni informi, e premeva contro la lampo nella speranza di essere liberato.