No, nemmeno questa è la verità. Di alcune cose sono certo. So chi morì quella notte, per esempio: gli uomini disperati che commisero l’errore di accompagnare Galilee su questo sacro terreno e che pagarono cara la loro invasione. Potrei portarvi anche ora alle loro tombe, anche se sono centotrent’anni che nemmeno io le visito. (Anche ora, mentre scrivo, il volto di uno di quegli uomini, il Capitano Holt, mi riempie l’occhio della mente. Posso vederlo nella sua tomba, il corpo talmente martoriato che forse nemmeno un osso ne era rimasto intatto.)
Di cos’altro sono certo? Che quella notte morì anche il grande amore della mia vita. Che vidi mia moglie tra le braccia di mio padre — oh Signore, uno spettacolo che ho pregato di poter dimenticare; ma chi potrebbe mai ascoltare le preghiere di un uomo che è stato abbandonato da Dio -, che lei mi guardò nei suoi ultimi istanti di vita e che in quel momento seppi che mi aveva amato e che non sarei mai più stato amato con una simile rabbia. Tutto questo, lo so, è incontestabilmente vero. È storia, se volete.
Ma quanto al resto? Non potrei dirvi se fu reale o meno. Talmente tante emozioni furono scatenate quella notte e in un luogo come questo la furia, l’amore e la sofferenza non rimangono invisibili. Esistono qui com’erano esistiti all’inizio del mondo, come quelle forze primarie che hanno forgiato noi esseri minori.
Quella notte — con i sensi provati e la pelle ferita — fummo trasportati da un’inondazione di sentimenti visibili, che si plasmò in mille forme fantastiche. Non credo che assisterò mai più a uno spettacolo simile; né, per la verità, lo desidero. Per ogni parte del mio essere che ho ereditato da mio padre e che prova piacere nel caos fine a se stesso, esiste una parte che fa di me il figlio di mia madre e che non desidera altro che la tranquillità; un luogo dove scrivere, riflettere e sognare il paradiso. (Vi ho già detto che mia madre era una poetessa? No, non credo. Dovrò citare alcuni dei suoi lavori in seguito.)
Così, parlandovi della mia mancanza di coraggio nel descrivere quella notte, in qualche modo ho finito per darvene un assaggio. C’è ancora molto da raccontare e lo farò quando sarà il momento. Ma non adesso. Certe cose vanno fatte per gradi.
Fidatevi di me; quando saprete tutto ciò che dovete sapere, vi domanderete dove ho trovato la forza di incominciare.
Cinque
1
Dove avevamo lasciato Rachel? Sulla strada, giusto?, di ritorno a Manhattan mentre rifletteva sui meriti di Neil Wilkens e di suo marito?
Oh sì, l’abbiamo lasciata mentre rifletteva sul fatto che in fondo al cuore entrambi erano uomini tristi e si chiedeva perché. (A mio avviso, Neil e Mitch non erano persone poi tanto strane; erano infelici perché molti uomini, forse la maggior parte degli uomini, sono infelici in fondo all’anima. Bruciamo così dolorosamente, ma produciamo una luce così debole; e questo ci rende pazzi e tristi.)
In ogni caso, Rachel fece ritorno a Manhattan determinata a dire al marito che non aveva intenzione di restare sua moglie per un istante di più, che era tempo che si separassero. Non aveva ancora deciso esattamente con quali parole gliel’avrebbe detto; si sarebbe affidata all’ispirazione del momento.
Ma quel momento fu ritardato di un giorno. Ellen, una delle segretarie di Mitchell, le disse che il marito era partito per Boston la sera prima. Rachel provò una fitta di rabbia al pensiero che se ne fosse andato così; una rabbia del tutto illogica, dato che lei aveva fatto esattamente la stessa cosa pochi giorni prima. Telefonò al Ritz-Carlton di Boston dov’era alloggiato Mitchell. Sì, le dissero, suo marito aveva preso una stanza; no, al momento non era in albergo. Rachel lasciò un breve messaggio per informarlo che era tornata all’appartamento. Mitch era ossessivo riguardo ai messaggi e talvolta passava a controllarli addirittura ogni ora. Ma non la richiamò, e quel fatto poteva significare soltanto che aveva deciso di non parlarle; che la stava punendo, in altre parole. Resistette alla tentazione di richiamarlo. Non voleva dargli la soddisfazione di immaginarla come in realtà era, ossia seduta accanto al telefono in attesa di una sua chiamata.
Verso le due del mattino, proprio mentre Rachel stava per addormentarsi, Mitch telefonò. Il suo tono era amichevole in modo quasi sospetto.
“Sei stato fuori?” gli chiese lei.
“Ci siamo visti con qualche amico”, rispose lui. “Nessuno che conosci. Gente di Harvard.”
“Quando torni a casa?”
“Non lo so ancora. Giovedì o venerdì.”
“Garrison è con te?”
“No. Perché?”
“Così.”
“Sì, mi sto divertendo, se è questo che vuoi sapere”, ribatté Mitch in tono meno caloroso ora, “sono stufo di fare il cavallo da soma solo perché tutti possano restare ricchi.”
“Non farlo per me”, disse lei.
“Oh non cominciare.”
“Parlo sul serio. Ero…”
“… perfettamente felice anche quando non avevo niente”, concluse Mitch per lei, in un’imitazione gracchiante della sua voce.
“Be’, è la verità.”
“Oh, Cristo santo, Rachel. Ho detto soltanto che stavo lavorando troppo…”
“Solo perché tutti possano restare ricchi, hai detto.”
“Sei fottutamente permalosa.”
“Non insultarmi.”
“Oh Gesù.”
“Sei ubriaco, vero?”
“Te l’ho detto, sono uscito. Non devo certo giustificarmi. Ascolta, è meglio che interrompiamo la conversazione. Parleremo quando tornerò a casa.”
“Torna domani.”
“Ti ho già detto che tornerò giovedì o venerdì.”
“Dobbiamo parlare, Mitch, e dobbiamo farlo al più presto.”
“Di cosa?”
“Di noi. Di quello che dobbiamo fare. Non possiamo andare avanti così.”
Seguì un lungo, lungo silenzio. “Tornerò domani”, disse lui alla fine.
2
Mentre Rachel e Mitchell interpretavano il loro triste dramma familiare, altre cose stavano accadendo, e nessuna era così superficialmente degna di nota quanto la separazione dei due innamorati che in seguito avrebbe avuto conseguenze ben più tragiche di quanto all’epoca si potesse immaginare.
Forse vi ricorderete che ho accennato all’astrologo di Loretta. Non so se quell’uomo fosse un ciarlatano o una persona seria (anche se devo pensare che chiunque venda le proprie capacità profetiche a donne ricche non sia spinto da un’autentica ambizione visionaria). So comunque che le sue predizioni si dimostrarono — benché in modo contorto — assolutamente esatte. Le cose sarebbero andate così anche se l’astrologo avesse taciuto le sue profezie? O fu proprio la mano del destino a spingerlo a pronunciarle ad alta voce, segnando così il futuro dei Geary? Ancora una volta, non so rispondere. Posso solo raccontarvi cosa accadde e lasciare il resto al vostro giudizio.
Comincerò con Cadmus. Quella in cui Rachel ritornò da Dansky, fu un’ottima settimana per lui. Riuscì a fare un breve viaggio in auto a Long Island e trascorse un paio d’ore seduto sulla spiaggia a guardare l’oceano. Due giorni dopo uno dei suoi nemici più acerrimi, un membro del Congresso di nome Ashfield che aveva tentato di iniziare un’indagine sulle attività economiche dei Geary negli anni Quaranta, morì di polmonite, cosa che rallegrò non poco il vecchio Cadmus. La malattia era stata dolorosa, gli fu raccontato, e le ultime ore di Ashfield erano state un’autentica agonia. Nell’ascoltare quei particolari, Cadmus scoppiò a ridere. Il giorno dopo disse a Loretta di aver intenzione di stilare un elenco di tutte le persone che avevano tentato di tagliargli la strada nel corso degli anni e a cui lui era sopravvissuto. Poi lei avrebbe dovuto mandarla al Times per la pagina dei necrologi: una sorta di in memoriam collettivo per coloro che non avrebbero mai più potuto osteggiarlo. Un’ora più tardi se ne dimenticò, ma il suo umore allegro non lo abbandonò. Rimase sveglio molto più del solito e si fece preparare persino un vodka Martini. Mentre sorseggiava il suo drink e osservava la città seduto sulla sedia a rotelle, disse: