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“Ho sentito certe voci…”

“A che proposito?” chiese Loretta.

“Ti sei rivolta a un astrologo.”

“Sì.”

“Che cosa ti ha detto?”

“Sei sicuro che quel Martini ti farà bene, Cadmus? Non dovresti mischiare medicinali e alcolici.”

“Per la verità è una sensazione abbastanza piacevole”, ribatté lui con voce leggermente strascicata. “Mi stavi parlando del tuo astrologo. Ti avrà dato brutte notizie, suppongo.”

“Tu non credi a questo genere di cose”, gli rammentò Loretta. “Perché ti interessa?”

“Sono notizie così terribili?” domandò Cadmus. Osservò per un attimo il volto di sua moglie. “In nome di Dio, che cosa ti ha detto, Loretta?”

Lei sospirò. “Non penso che…”

Dimmelo!” ruggì lui.

Loretta lo fissò, sorpresa dal fatto che da un corpo tanto fragile potesse scaturire un suono così potente.

“Ha detto che qualcosa sta per cambiare le nostre vite”, rispose Loretta. “E che devo prepararmi al peggio.”

“E cosa sarebbe il peggio, di preciso?”

“La morte, immagino.”

“La mia?”

“Non lo ha specificato.”

“Perché se si tratta della mia…” si sporse verso di lei per prenderle la mano, “… non è certo la fine del mondo. Mi sento più che pronto a concedermi un po’ di riposo.” Le sfiorò il viso. “La mia sola preoccupazione sei tu. So che detesti stare sola.”

“Ti seguirei molto presto, comunque”, disse Loretta dolcemente.

“Shhh. Non dire queste cose. Hai ancora una lunga vita davanti.”

“Non senza di te.”

“Non c’è niente di cui avere paura. Ho già fatto in modo che tu non debba preoccuparti della tua situazione economica. Non ti mancherà mai nulla.”

“Non è dei soldi che sono preoccupata.”

“Di che cosa, allora?”

Loretta prese le sigarette e giocherellò con il pacchetto per un attimo. “C’è qualcosa che non mi hai mai detto sulla tua famiglia?” domandò.

“Oh, ce ne sono mille”, rispose Cadmus in tono leggero.

“Non parlo di mille cose, Cadmus”, puntualizzò Loretta. “Ma di qualcosa veramente importante. Qualcosa che non mi hai mai rivelato. E non mentire, Cadmus, è troppo tardi per le menzogne.”

“Io non ti ho mai mentito”, disse lui. “Parlavo sul serio: ci sono mille cose su questa famiglia che non ti ho mai detto ma nessuna, tesoro te lo giuro, nessuna è poi tanto terribile.” Loretta sembrò in qualche modo placata. Sorridendo e accarezzandole la mano, Cadmus non tardò a capitalizzare il suo successo. “Ogni famiglia ha i suoi segreti spiacevoli. Anche noi li abbiamo. Mia madre morì in modo miserevole. Ma questo lo sai. Ci sono alcuni affari fatti durante la Depressione che non mi fanno onore ma…” scrollò le spalle, “… il Signore sembra avermi perdonato. Mi ha voluto donare dei figli e dei nipoti meravigliosi e una vita più lunga e sana di quanto avrei mai osato sperare. E mi ha donato la cosa più importante di tutte: te.” Le baciò teneramente la mano. “Credimi, tesoro, non passa giorno senza che io lo ringrazi per quanto è stato generoso.”

Quella fu più o meno la fine della conversazione. Ma fu solo l’inizio delle conseguenze delle rivelazioni dell’astrologo.

Il giorno dopo, mentre Loretta era a pranzo con diverse vedove filantrope di Manhattan, il vecchio si recò nella biblioteca, chiuse la porta a chiave e da un nascondiglio segreto dietro le schiere di volumi rilegati in pelle prese una piccola scatola di metallo chiusa da una sottile striscia di cuoio. Le sue dita erano troppo deboli per sciogliere il nodo, così dovette servirsi di un paio di forbici. Sollevò il coperchio. Se vi fosse stato qualcuno con lui in quel momento, avrebbe pensato che quella scatola contenesse un tesoro inestimabile a giudicare dai modi reverenziali di Cadmus. Ma quel testimone immaginario sarebbe stato deluso. Non c’era niente di straordinario nella scatola. Solo un libriccino che puzzava di vecchio, la copertina e le pagine macchiate, gli appunti scritti a mano su quelle pagine ormai sbiaditi dagli anni. E tra le pagine, qua e là, qualche foglio staccato, un pezzetto di tessuto blu, una foglia scheletrica che gli si sbriciolò tra le dita quando provò a sollevarla.

Sfogliò il libriccino avanti e indietro per una decina di volte, fermandosi di tanto in tanto a studiare il contenuto di una pagina, brevemente.

Solo quando ebbe finito di esaminarlo, tornò a focalizzare l’attenzione su una delle pagine staccate. La prese, l’aprì con la stessa delicatezza che avrebbe dedicato a una creatura vivente — una farfalla, forse, di cui voleva ammirare le ali senza però ferirla in alcun modo.

Era una lettera. La mano che l’aveva scritta aveva una grafìa elegante ma la mente che l’aveva concepita era ancora più eloquente, i pensieri compressi al punto da sembrare più poesia che prosa.

Mio carissimo fratello, diceva. I grandi dolori del giorno sono passati e, attraverso il crepuscolo rosa e oro, posso sentire la tenera musica del sonno.

I filosofi si sbagliano, ormai ne sono certo, quando sostengono che il sonno è simile alla morte. È qualcosa che ricorda un viaggio notturno verso le braccia di una madre, dove saremo benedetti e ascolteremo il ritmo amorevole di una ninna-nanna.

La sento adesso, anche mentre ti scrivo queste parole. E, anche se nostra madre è morta ormai da un decennio, io torno a lei e lei a me, e il mondo è di nuovo buono.

Domani combatteremo a Bentonville, e siamo in numero talmente inferiore che non vi è alcuna speranza di poter vincere. Quindi perdonami se non ti dico che spero di riabbracciarti, perché non credo più in una simile speranza, non in questo mondo almeno.

Prega per me, fratello, perché il peggio deve ancora venire. E se le tue preghiere saranno esaudite, forse lo stesso vale per il meglio.

Ti ho sempre voluto bene.

La lettera era firmata Charles.

Cadmus la studiò ancora per un attimo; in particolare il penultimo paragrafo. Quelle parole lo facevano tremare. Prega per me, fratello, perché il peggio deve ancora venire. Non c’era nulla in quell’enorme biblioteca, nulla tra i cupi capolavori del mondo, che riuscisse a turbarlo come quelle poche parole. Naturalmente non aveva conosciuto di persona l’autore della lettera — la battaglia di Bentonville era stata combattuta nel 1865 — ma provava una profonda empatia per quell’uomo. Quando rileggeva quella pagina aveva la sensazione di essere seduto accanto a lui, nella sua tenda prima di quella tragica battaglia, lì, ad ascoltare il rumore della pioggia battente e le canzoni stanche degli uomini della fanteria rannicchiati attorno ai loro fuochi fumosi, con la certezza che sarebbe stata una forza superiore a decidere delle loro sorti.

Molti anni prima, quando per la prima volta aveva letto quel diario e in particolare quella lettera, Cadmus aveva fatto di tutto per scoprire le circostanze in cui erano stati scritti. E ciò che aveva scoperto era che nel marzo del 1865 le forze ormai decimate degli Stati Ribelli, al comando dei generali Johnston e Bragg, erano state spinte attraverso il North Carolina fino a un luogo chiamato Bentonville. E lì, gli uomini esausti, affamati e disperati si erano preparati ad affrontare il potente esercito del Nord. Sherman aveva intuito l’approssimarsi della vittoria; sapeva che i suoi awersari non sarebbero durati a lungo. Alcuni mesi prima, in novembre, aveva coordinato l’incendio di Atlanta, e Charleston — la coraggiosa, assediata Charleston — ben presto sarebbe caduta sotto il suo assalto. Il Sud non aveva più alcuna speranza di vincere, e sicuramente ogni uomo che stava per combattere a Bentonville lo sapeva.