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Era partito dopo un paio di settimane, aveva chiuso la casa e aveva fatto capire agli abitanti di Puerto Bueno che chiunque vi si fosse introdotto se ne sarebbe pentito amaramente.

Non era tornato per tredici mesi. Talvolta ritornava tre o quattro volte in un solo anno, altre volte non si faceva vedere per anni interi. Era diventato una leggenda e si dice che alcuni dei delinquenti e dei fuggitivi che si erano trasferiti in città dopo il suo arrivo lo avessero fatto perché avevano sentito parlare di lui. In questo caso sarebbe legittimo chiedersi, perché la storia del viaggiatore, di un uomo nelle cui vene scorreva sangue divino, non aveva attratto anche qualche spirito più elevato? Perché non erano arrivati dei santi a Puerto Bueno, perché la presenza di Galilee non aveva trasformato la città in un luogo in cui accadevano miracoli?

Posso darvi solo una risposta: le ferite di Galilee erano troppo profonde. Quindi come avrebbe potuto la sua leggenda ispirare santi guaritori se persino lui era incapace di guarire se stesso?

E così sapete come stavano le cose circa una settimana prima della partenza di Rachel per le Hawaii.

Galilee non era in mare in quel momento, si trovava nella casa sulla collina. Aveva portato la Samarcanda a Puerto Bueno perché la barca necessitava di riparazioni e per qualche settimana si divise tra il porto e la casa, lavorando dall’alba al tramonto per riparare l’imbarcazione e trascorrendo le ore di oscurità seduto alla finestra della casa di Higgins a scrutare il Pacifico. Non avrebbe mai permesso a qualcuno di mettere piede sulla Samarcanda per aiutarlo. Era un perfezionista: nessuna mano, eccetto la sua, avrebbe potuto toccare la sua barca. Di tanto in tanto, qualche curioso si fermava sul molo a osservarlo lavorare, ma Galilee lo allontanava con un semplice sguardo. Solo una volta partecipò alle attività sociali della città, per la precisione in una notte di vento — qualche giorno prima della sua partenza — in cui apparve nel piccolo bar sulla collina dove metà degli abitanti di Puerto Bueno si recava a bere, e trangugiò più brandy di quanto chiunque altro sarebbe riuscito a reggere. Ma tutto quell’alcool si limitò a rendere Galilee abbastanza allegro e piuttosto loquace — considerando i suoi standard precedenti, almeno. Coloro che parlarono con lui quella sera ebbero la straordinaria impressione che quell’uomo misterioso si fosse aperto con loro, che avesse condiviso qualche segreto. Il mattino successivo, comunque, quando provarono a ripetere ciò che lui aveva raccontato, non riuscirono a ricordare quasi nulla di ciò che Galilee aveva detto di sé.

Due giorni più tardi, cominciò a lavorare più alacremente alla Samarcanda, e continuò senza interruzioni per settantadue ore. Sembrava che d’improvviso avesse ricevuto l’ordine di salpare appena possibile, che qualcosa lo obbligasse ad andarsene prima del previsto.

Il terzo giorno delle sue fatiche, si recò all’emporio per ordinare delle provviste. I suoi modi erano bruschi, la sua espressione cupa: nessuno ebbe il coraggio di chiedergli dove fosse diretto. Fu Hernandez, il figlio del proprietario del negozio, a consegnargli le provviste; Galilee lo pagò anche troppo per i suoi sforzi e chiese al giovane di chiedere scusa da parte sua a Hernandez Senior; sapeva di non essere stato molto educato quella mattina, ma non aveva voluto offendere nessuno.

Quella fu l’ultima conversazione che un abitante di Puerto Bueno ebbe con Galilee durante tale visita. Mio fratello levò l’ancora al tramonto e la Samarcanda abbandonò il porto scivolando sulla marea della sera, diretta verso luoghi dei quali si ipotizzò molto ma non si seppe mai nulla.

Nove

1

Nicodemus, come ho già detto, era un uomo dalle prodigiose energie sessuali. Amava tutto ciò che era erotico (esclusi i libri): dubito siano mai passati due minuti consecutivi senza che pensasse a qualcosa di sessuale. E il suo interesse non era limitato alla sessualità umana o superumana. Amava lo spettacolo di una libido scatenata sotto qualunque forma si presentasse. Nei suoi cavalli soprattutto. Amava guardarli mentre si accoppiavano. Molto spesso era con loro quando questo accadeva, e sussurrava ora allo stallone ora alla giumenta come per incoraggiarli. E se le cose non funzionavano, era pronto ad aiutarli con le sue stesse mani. Masturbando lo stallone se era il caso e guidandolo verso la giumenta se era troppo impacciato; toccando la giumenta con tanta tenerezza da riuscire a calmarla e renderla arrendevole.

Ricordo un incidente simile con particolare chiarezza; accadde più o meno due anni prima della sua morte. Aveva un cavallo di nome Dumuzzi, del quale andava particolarmente orgoglioso. E aveva le sue buone ragioni. Dumuzzi era intelligente in modo quasi soprannaturale e squisitamente proporzionato. Talvolta mi sono chiesto se mio padre non avesse in qualche modo scolpito quella creatura splendida perché fosse d’ispirazione al mondo degli umani; un esemplare talmente perfetto da costringere tutti coloro che avessero potuto osservare la sua forza e la sua bellezza a meditare sulla meraviglia della creazione.

Accadde questo: quella notte si scatenò una terribile tempesta. Si fece buio prima di sera, quando le nubi color ferro coprirono quel che restava del sole. I tuoni erano così violenti da far tremare la terra persino a chilometri di distanza.

I cavalli erano in preda al panico, naturalmente, e non erano affatto dell’umore di accoppiarsi. Soprattutto Dumuzzi, la cui unica vera fragilità era il carattere: sembrava sapere di essere una creatura speciale e si comportava in modo teatrale. Quella notte era particolarmente intrattabile: quando mio padre entrò nella stalla per prepararlo, Dumuzzi scalciò e s’imbizzarrì. Ricordo di aver suggerito a Nicodemus di provare nuovamente il mattino dopo, una volta che fosse passata la tempesta, ma quello era uno scontro che nessun mio consiglio avrebbe mai potuto placare. Nicodemus si rivolse a Dumuzzi come avrebbe potuto fare con un amico ubriaco e volubile; gli disse che non era dell’umore di assecondarlo e che prima si fosse calmato e avesse cominciato a comportarsi bene, meglio sarebbe stato per tutti. Ma il cavallo ignorò quell’avvertimento e anzi divenne ancora più irrequieto. Io non temevo per mio padre — all’epoca lo credevo immune da ogni ferita — ed ero più che altro in pensiero per la mia stessa sicurezza. Durante i vari viaggi che avevo compiuto per conto di Nicodemus, alla ricerca di grandi cavalli, avevo visto quali danni potevano causare e temevo per le mie membra e per la mia vita. Tuttavia ero incapace di distogliere lo sguardo da quello spettacolo. La tempesta era quasi sopra di noi adesso, e Dumuzzi era in preda alla frenesia. Scintille di elettricità statica gli attraversavano la criniera e gli dardeggiavano tra gli zoccoli e sul terreno; i suoi lamenti erano così potenti da farsi sentire anche al di sopra dei tuoni.

Nicodemus non si scompose. In vita sua aveva avuto a che fare con innumerevoli animali imbizzarriti, e Dumuzzi, nonostante la sua forza e le sue dimensioni eroiche, era soltanto uno di più. Non senza qualche difficoltà, mio padre riuscì a mettergli le briglie e a trascinarlo fuori dalla stalla dove una giumenta attendeva legata. Riesco ancora a vedere la scena con l’occhio della mente ed è tutto così vivido: i fulmini che eruttavano dalle nubi nel cielo, i cavalli che nitrivano istericamente, le labbra arricciate a scoprire i denti; Nicodemus che gridava al di sopra del fracasso della tempesta, il gonfiore all’inguine che mostrava chiaramente quanto quello spettacolo lo stesse eccitando.

Lui stesso sembrava in parte un animale illuminato dai lampi; i capelli scarmigliati lunghi fino alla vita, il volto tagliato in due da un sorriso rabbioso, la pelle iridescente. Se avesse perso ogni traccia di umanità in quel momento — per trasformarsi in un cavallo o in un lampo o in entrambi — non mi sarei stupito per nulla. Ma forse il fatto di essere confinato nella sua anatomia umana lo eccitava ancora di più in quelle circostanze; lo eccitava dover sudare e combattere.