Eccolo — una divinità fatta carne, una carne prossima a diventare animale — intento a trascinare Dumuzzi in presenza della giumenta. Pensavo che l’ultima cosa che lo stallone volesse fare fosse accoppiarsi, ma mi sbagliavo. Nicodemus si insinuò tra i due cavalli e cominciò a eccitarli: massaggiando loro i fianchi, i ventri, le teste e continuando a parlare. Nonostante la sua agitazione, Dumuzzi ben presto si gettò sulla giumenta. Senza smettere di parlare, mio padre afferrò il membro dello stallone e lo guidò verso l’apertura della giumenta. Dumuzzi non ebbe bisogno di altro aiuto.
Mio padre indietreggiò e rimase a guardare. Non stava più ridendo. Aveva il capo chino, le spalle curve: sembrava un predatore pronto a saltare alla gola dei due cavalli, se solo lo avessero deluso.
Ma non fu così. Benché la tempesta continuasse a infuriare, gli animali scoparono e scoparono e scoparono, il panico perso nella frenesia dell’accoppiamento.
Il frutto di quella monta fu un maschio. Nicodemus lo battezzò Temujin, il vero nome di Gengis Khan. Quanto a Dumuzzi, da quella notte in poi sembrò adorare ancora di più mio padre; era come se fossero diventati fratelli. Dico come perché ho il sospetto che la devozione del cavallo fosse solo una finzione. Per quale motivo? Perché la notte in cui mio padre morì, la carica di cavalli in preda al panico che lo schiacciò fu guidata proprio da Dumuzzi, perché nei suoi occhi, lo giuro, luccicava la vendetta.
Vi ho raccontato tutto questo in parte per farvi capire meglio mio padre, la cui presenza in questa storia è necessariamente aneddotica, e in parte perché serve a ricordarmi delle capacità che giacciono in attesa nella mia natura.
Come ho detto all’inizio del capitolo, la mia libido non è che una pietosa eco degli appetiti sessuali di Nicodemus. La mia vita erotica non è mai stata particolarmente complessa o interessante, fatta eccezione per un breve periodo in Giappone quando corteggiavo, seguendo il rituale formale, Chiyojo, la donna che sarebbe diventata mia moglie, mentre di notte dividevo il letto con suo fratello Takeda, un attore kabuki di una certa notorietà (un onagatta, per la precisione; ovvero, interpretava solo ruoli di donne). A parte questo gli scandali della mia vita sessuale non riempirebbero nemmeno un breve volumetto.
E tuttavia — mentre mi preparo per la parte di questa storia dedicata all’amore — non posso fare a meno di chiedermi dove sia finito in me il fuoco che ho ereditato da mio padre. C’è un amante dentro di me, da qualche parte, in attesa del momento opportuno per mostrare la sua abilità? E quell’energia si è trasformata in qualcosa di meno frenetico? È quell’energia ad alimentare le parole che scrivo? I succhi del desiderio di Nicodemus si sono tramutati per me in penna e inchiostro?
Mi sono spinto anche troppo in là con queste analogie. Comunque, ormai le ho scritte e non ho intenzione di cancellarle dopo tanti sforzi.
Devo continuare. Lasciamo i ricordi di mio padre, della tempesta e dei cavalli. Spero solo che la passione che mi porta alla mia scrivania (ossessivamente ormai; non passa istante senza che io pensi a ciò che ho scritto o a ciò che sto per scrivere) non sia cieca e confusa come sa essere l’amore. Ho bisogno di chiarezza. Oh Signore, ho bisogno di chiarezza!
Ci sono momenti in cui penso di essermi smarrito. Ho tutte queste storie affascinanti ma non so più come riunirle. Sembrano così assolutamente diverse le une dalle altre: i pescatori di Atva, i monaci impiccati, Zelim a Samarcanda; la lettera di un giovane soldato che affronta la morte su un campo di battaglia durante la guerra civile; una stella del cinema muto amata e raggiunta in Germania da un uomo troppo ricco; il cadavere di George Geary a bordo di un’auto sulla spiaggia di Long Island; e l’astrologo di Loretta che profetizza la catastrofe; Rachel Pallenberg disamorata dell’amore e Galilee Barbarossa disamorato della vita stessa. Come diavolo riunire tutti questi tasselli in un mosaico sensato?
Forse (e questa è un’idea che mi nausea, anche se non posso scartarla) non c’è modo di riunirli. Forse ho perso la strada già da tempo e sto semplicemente radunando trame di una storia che non si potranno mai legare.
Be’, è troppo tardi ormai. Non posso smettere di scrivere; il mio slancio è troppo impetuoso. Devo continuare usando tutto il genio, per quanto poco possa essere, che ho ereditato da mio padre, per interpretare le scene di desiderio umano che stanno per dipanarsi davanti a me, nella speranza che interpretandole scoprirò un modo per dare un senso a ciò che ho descritto finora.
2
Un’ultima cosa. Non posso fare a meno di spiegarvi qualche particolare della mia ultima conversazione con Luman.
Non pensiate che io sia un codardo; non lo sono. Mi rendo pienamente conto che prima o poi dovrò affrontare le accuse che mi ha rivolto il mio fratellastro; faccia a faccia con lui, e faccia a faccia con me stesso (il che significa: qui, in queste pagine). Luman ha detto che la mia devozione per Nicodemus è stata in qualche misura la ragione della morte di mia moglie; che se fossi stato il marito amorevole che dicevo di essere, non avrei certo chiuso un occhio sulla situazione. Avrei detto a Nicodemus che lei era mia e che avrebbe dovuto lasciarla in pace. Ma non l’ho fatto. Gli ho permesso di mettere in atto il suo desiderio e Chiyojo ne ha pagato il prezzo.
Sono colpevole.
Ecco; l’ho ammesso. E ora? È troppo tardi per chiedere perdono a Chiyojo. O almeno, non posso farlo qui; se il suo spirito si aggira ancora nel mondo dei mortali — e sospetto che sia così — è sicuramente sulle colline sopra Ichinoseki, in attesa della fioritura dei ciliegi.
Qui all’Enfant posso solo fare pace con Luman che mi ha rivolto le sue accuse spinto da ragioni perfettamente innocenti. È il genere d’uomo che non sa nascondere i suoi pensieri. Aveva un’opinione e l’ha detta chiaramente. Ma non è tutto, perché ciò che ha detto era giusto anche se mi costa fatica ammetterlo. Dovrei scendere alla Casa del Fumo con un paio di sigari e dirgli che mi dispiace di essere esploso in quel modo; voglio che ricominciamo a parlare.
Ma il pensiero di avventurarmi sul sentiero che porta alla Casa del Fumo mi spaventa; non ce la faccio. Non ancora, almeno. Verrà un momento, ne sono sicuro, in cui non avrò più pretesti e dovrò andare a fargli le mie scuse.
Forse andrò domani, forse dopodomani. Quando avrò scritto dell’isola, allora andrò. Sì, è così. Quando mi sarò liberato di tutto ciò che devo dirvi sull’isola e di ciò che là accadde a Rachel, starò meglio e sarò in grado di andare a parlare con Luman. Si merita tutta la mia attenzione, e in un momento in cui sono così distratto non potrei certo concedergliela.
Comincio a sentirmi meglio, adesso, ho confessato la mia colpa e questo mi è stranamente di conforto. Non ho intenzione di provare a giustificarmi. Sono stato debole e troppo ansioso di compiacere. Ma non posso concludere questo passaggio senza tornare all’immagine di Nicodemus la notte della tempesta. Era una creatura straordinaria, senza alcun dubbio; penso che molti figli con un padre simile avrebbero anteposto la loro lealtà a lui ai loro doveri coniugali. L’ironia è questa: se speravo di diventare come lui e di ottenere la sua approvazione e il suo affetto concedendogli Chiyojo, sono andato contro i miei stessi interessi con eroica testardaggine. In una sola notte, ho perso il mio idolo, ho perso mia moglie e — è giusto che lo dica una volta per tutte — ho perso me stesso. Quel poco che era rimasto di me — un sé diviso dal mio desiderio di compiacere mio padre — è stato schiacciato dagli zoccoli degli stessi cavalli che hanno ucciso lui. È solo da qualche settimana a questa parte, da quando ho cominciato a scrivere questa storia, che è comparsa un’anima di nome Maddox, viva nella mia carne e degna di essere ricordata. Forse il momento della mia rinascita è stato quando sono uscito dalla stanza del cielo, lasciandomi alle spalle la sedia a rotelle.