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Quattordici

Ultimamente, quando scrivo, mi sorprendo a stringere la penna con tanta forza che riesco quasi a sentire il sangue pulsarmi nel pollice e nell’indice. E una stretta sempre più ossessiva, la mia. Se dovessi morire in questo istante, mentre scrivo queste parole, non sarebbe facile dividermi dalla mia penna.

Sicuramente ricorderete che non molti capitoli fa ho confessato di essermi perso; di non sapere come riunire i molti tasselli di questa storia. Ma dopo aver passato queste ultime notti a scrivere, il senso di disagio che mi tormentava ha cominciato ad alleviarsi. Forse sto solo ingannando me stesso ma ho l’impressione di riuscire a intravedere con più chiarezza le connessioni: lentamente il grande schema di questa narrazione si sta svelando. Così mi sento ancora più attratto dalla storia, come un fedele è attratto dall’altare e — se posso azzardare un’ipotesi — quasi per lo stesso motivo, per la speranza di ascendere a un luogo di rivelazione.

E nel frattempo, resto in compagnia dei miei personaggi come se fossero vecchi amici. Mi basta chiudere gli occhi per vederli.

Rachel, per esempio. La vedo con l’occhio della mente mentre sorseggia il suo ultimo Bloody Mary della giornata prima di andare a dormire, nemmeno sfiorata dal sospetto di essere sul punto di vivere la notte della sua vita. E altrettanto chiaramente posso vedere Cadmus. Eccolo, sulla sedia a rotelle davanti a un televisore da sessanta pollici, lo sguardo offuscato mentre osserva una scena accaduta molti anni fa, ma comunque più reale per lui delle macchie di età che gli scuriscono le mani. Posso evocare l’immagine di Garrison — povero, malato Garrison, che sa di avere un cuore terribilmente ferito — e quella di Margie, ubriaca; e quella di Loretta, intenta a macchinare successioni; e quella della moglie di mio padre, impegnata nei suoi progetti; e quelle di Luman, di Marietta e di Galilee.

Oh, il mio Galilee. Questa notte mi sembra di vederlo più chiaramente di quanto l’abbia mai visto in vita mia. Più chiaramente di quando era in piedi davanti a me in carne e ossa. E per quanto assurdo possa sembrare, è la verità. Sognando Galilee come lo sto sognando ora, lo evoco non solo come una creatura di carne e personalità ma anche come un essere mitologico, e così mi sembra di trovarmi in presenza di un’anima più autentica dell’uomo fantasma che ho incontrato qualche giorno fa.

Potreste dire: che assurdità. Siamo fatti di carne e sangue, potreste obiettare. E io risponderei: sì, ma morendo ci trasformiamo in spirito. Persino le divinità come Galilee prima o poi abbandonano i limiti della carne, e quando non hanno più confini crescono e diventano leggende. Così immaginandolo nella sua forma mitica — di viaggiatore, amante, selvaggio — non sono forse più vicino al Galilee con il quale la mia anima vorrà trascorrere l’eternità?

Ho appena commesso il grave errore di leggere gli ultimi paragrafi a Marietta. Lei ha fatto una smorfia; li ha descritti come “robaccia pretenziosa” (e questa è stata la sua definizione più gentile); mi ha detto che avrei dovuto spogliare il testo di tutte le mie elucubrazioni e andare avanti col mio lavoro, il che — a suo avviso — è semplicemente riportare quanto so della storia dei Barbarossa e dei Geary nel modo più fedele e conciso possibile.

Così ho deciso di non condividere più con lei quello che sto scrivendo. Se Marietta vuole un libro sull’ascesa e la caduta della dinastia Geary, allora, dannazione, può anche scriverselo da sé. Io sto facendo qualcosa di completamente diverso. Sarà un patchwork, senza dubbio, composto da molte parti discordanti, ma sono convinto che sarà bello quanto un racconto breve e ordinato. E, tra l’altro, molto più simile alla vita.

Ah, Marietta mi ha detto altre due cose che credo valga la pena riferirvi, se non altro perché entrambe contengono ben più che una piccola dose di verità. Primo, mi ha accusato di amare le parole per la loro musicalità. Io mi sono dichiarato colpevole, e la cosa l’ha fatta infuriare. “Ma per te la musica è più importante del senso!” ha esclamato. (Questo non è del tutto vero. Ma sono convinto che il senso sia sempre un ritardatario. La bellezza e la musica sono le prime a sedurci; poi, vergognandoci della nostra stessa sensualità, insistiamo sul significato.)

E questo mi porta al suo secondo commento: secondo lei non sono altro che un cantastorie d’altri tempi. Le ho rivolto un ampio sorriso e le ho detto che niente mi avrebbe dato più piacere del poter recitare il mio libro a memoria, ad alta voce. E allora avrebbe capito quanto piacere potevano dare le mie storie. Non le piace quello che sto raccontando, signore? Non si preoccupi. Cambierà tra due minuti. Non le piacciono gli scandali? Le racconterò qualcosa di Dio. Detesta Dio? Le reciterò una scena d’amore. È un puritano? Abbia pazienza, perché gli amanti soffriranno. Come sempre, del resto.

Com’era prevedibile, la reazione di Marietta è stata aspra. “Allora pensi soltanto a compiacere il pubblico, giusto?” ha replicato Marietta. “Ti adatti a quello che la gente vuole sentire. Perché non ti limiti a riempire questa storia di sesso e basta?”

“Hai finito?”

“No.”

“Allora preferirei che te ne andassi. Sei venuta solo per litigare, e io ho cose più interessanti da fare.”

“Ah!” ha esclamato lei, togliendomi di mano uno dei fogli che le avevo appena letto. “E questa è una delle tue cose migliori? Siamo fatti di carne e sangue, potreste obiettare.

Le ho strappato la pagina di mano, per impedirle di continuare. “Vattene”, ho detto con fermezza. “Sei solo una filistea.”

“Oh, è così sono troppo stupida per apprezzare le tue ambizioni artistiche, vero?”

Sono rimasto a riflettere per un istante. “Be’… sì.”

“Bene. Allora ci siamo chiariti una volta per tutte. Io penso che il tuo lavoro sia solo un mucchio di spazzatura, e tu pensi che io sia stupida.”

“Hai fatto un ottimo riassunto della situazione.”

“No”, ha detto lei. “Tu l’hai fatto. E con questo abbiamo finito.”

“Sono d’accordo, Marietta.”

“Non tornerò più qui da te”, mi ha ammonito. “Bene”, ho replicato. “Non avrai più alcun aiuto da me.”

“Come ho già detto: bene.

Ormai aveva il volto arrossato dalla rabbia. “Parlo sul serio, Maddox.”

“Lo so”, ho detto in tono pacato. “E, credimi, la cosa mi spezza il cuore. Forse non lo do a vedere, ma questa è una prospettiva che mi distrugge.” Ho indicato la porta. “Quella è l’uscita.”

Dio, Maddox”, ha sibilato lei. “Certe volte sei una tale testa di cazzo.

E così, se non ricordo male, si è conclusa la nostra discussione. Da allora non l’ho più vista. Naturalmente tornerà, prima o poi, magari fingendo che non sia successo nulla. Nel frattempo, potrò lavorare indisturbato, il che mi va benissimo. Devo scrivere quelli che forse sono i passaggi più importanti di tutta la mia storia, e meno distrazioni avrò più potrò concentrarmi.

C’è solo una parte della conversazione a cui continuo a ripensare, e cioè quella in cui mi ha accusato di essere un cantastorie. So che lei intendeva insultarmi, ma devo ammettere che non ci vedo niente di male. A dire la verità, mi sono immaginato un’infinità di volte seduto sotto un albero secolare nella piazza polverosa di un’antica città — Samarcanda, forse; sì! Samarcanda — mentre narro brani della mia epica in cambio di un tozzo di pane e di un po’ di oppio. Credo che quella vita mi sarebbe piaciuta: guadagnarmi da vivere vendendo il mio racconto, giorno dopo giorno. Avrei incantato il mio pubblico; e loro sarebbero tornati ogni pomeriggio a farmi visita tra le ombre blu, chiedendomi un altro frammento della saga familiare.