Mio padre era un grande improvvisatore di storie. In effetti questo è uno dei pochi ricordi veramente piacevoli che ho di lui. Sedermi ai suoi piedi quando ero bambino, mentre lui tesseva meravigliosi racconti per me. C’erano spesso storie crudeli: vicende violente e sanguinarie su un mondo passato, lontanissimo. Il mondo di quando lui era stato giovane, forse, se mai quel tempo era esistito.
Molti anni dopo, quando, raggiunta la soglia dell’età adulta, mi stavo preparando a cercare compagnia femminile, mi raccomandò di non sottovalutare mai la potenza delle storie nell’arte della seduzione. Non aveva conquistato mia madre con baci o complimenti, disse (e certamente non si era ubriacato e non l’aveva violentata, come Cesaria mi aveva raccontato); l’aveva stregata con una storia.
E questo ci riporta (anche se forse non vi sarà subito chiaro il perché) a quella notte sull’isola di Kaua’i e a Rachel.
PARTE QUINTA
L’atto dell’amore
Uno
Verso sera il vento aveva sospinto le nuvole in direzione del Monte Waialeale, dove si erano liberate del loro carico di pioggia. Il cielo si schiarì sulla spiaggia settentrionale e verso le sette e un quarto il vento si affievolì all’improvviso. Rachel stava cenando — del pollo arrosto preparato da Heidi che era arrivata, aveva cucinato e se n’era andata. Alzò lo sguardo e notò che le palme avevano smesso di ondeggiare e che il mare si era placato.
Quel silenzio la rese inquieta così ascoltò un po’ di musica. Fu un errore; le fece tornare alla mente una sera in cui lei e Mitchell, che all’epoca non si conoscevano da molto tempo, erano andati a ballare e avevano scelto un locale molto esclusivo in cui una piccola orchestra jazz suonava vecchie canzoni degli anni Quaranta e tutti ballavano guancia a guancia. Oh, com’era stata innamorata quella sera; come una quindicenne infatuata del quarterback della scuola. Avevano bevuto champagne e lui le aveva detto che l’amava e che l’avrebbe amata per sempre.
“Bugiardo…” mormorò, osservando il mare. A volte, quando ripensava a certe cose che Mitchell le aveva detto — promesse dolci che non aveva mantenuto, dichiarazioni dure con cui l’aveva ferita deliberatamente — avrebbe voluto trovarsi davanti a lui, puntargli contro un dito accusatore e chiedergli: perché lo hai detto? Dio mio, Mitchell, eri un tale bugiardo, un miserabile bugiardo…
Invece di spegnere il fonografo, continuò ad ascoltare quella musica fino all’ultima, malinconica nota. L’unico modo per lasciarsi alle spalle il dolore era affrontarlo. Se anche quel viaggio non fosse servito ad altro, pensò, almeno avrebbe avuto l’opportunità di sfogliare i suoi ricordi e vederli nitidamente. Allora, e solo allora, sarebbe potuta andare per la sua strada. Consegnare Mitchell e tutto ciò che aveva rappresentato per lei al passato e cominciare una nuova vita.
Una nuova vita. Quello sì che era un pensiero spaventoso. Non era la prima volta che si domandava cosa ne sarebbe stato di lei, ma ora quella domanda assumeva un valore nuovo lì, sull’isola, dove sapeva che altri erano venuti a ricominciare da zero prima di lei. Jimmy Hornbeck, per esempio. E anche i Montgomery e i Robertson e gli Schmutze sepolti attorno alla chiesa. Probabilmente anche loro erano arrivati da altri luoghi. Forse erano fuggiti, proprio come lei: da vite che li avevano feriti e delusi. Non sarebbe stato poi così male, pensò, scomparire dal mondo e vivere e morire in quel paradiso; essere seppellita in un luogo dove nessuno sarebbe venuto a piangerla, dove nessuno l’avrebbe ricordata.
Andò a letto verso le dieci e si addormentò rapidamente proprio come la notte prima. Ma questa volta non dormì fino all’alba. Si svegliò da un sogno poco dopo la mezzanotte. Aveva l’impressione di essere stata disturbata da qualcosa, ma non ne era sicura. Riusciva solo a sentire il frinire ritmico dei grilli e il morbido gracidio delle rane. La luce della luna filtrava attraverso le tende ma non era abbastanza intensa da poterla svegliare.
Poi si rese conto che era stato un odore. L’aroma dolce e intenso di qualcosa che bruciava. Con una certa riluttanza, la sua mente le disse che avrebbe dovuto alzarsi e andare a controllare che la fonte dell’odore non fosse in casa. Con il corpo ancora pesante di sonno, Rachel scostò le lenzuola e scese dal letto. Si infilò una T-shirt e un paio di slip, e scese al piano inferiore per indagare. Non appena raggiunse il soggiorno riuscì a scorgere il fuoco: era sulla spiaggia e ardeva brillante. Forse si trattava dei tre surfisti che aveva visto il primo giorno, tornati nel cuore della notte per accendere un falò e fumarsi un po’ d’erba. Se era così, questa volta avevano acceso un fuoco molto più grande. Era una ripida piramide di legna avvolta da fiamme gialle. Il profumo comunque non era quello del legno bruciato. Aveva un’intensità aromatica ed esotica.
Rachel aprì la portafinestra e uscì, pensando che avrebbe potuto vedere meglio chi aveva acceso quel fuoco. Ma non vide nessuno. Il cielo era pieno di stelle ma la luna era coperta. Ritornò in casa, prese il pacchetto di sigarette che aveva comprato all’aeroporto di Honolulu e uscì di nuovo. Questa volta scese dalla veranda e attraversò il prato fino a raggiungere il sentiero. Ora si trovava a non più di una decina di metri dal falò, eppure continuava a non scorgere alcuna traccia di chi lo aveva acceso. Il profumo era più intenso che mai adesso e si levava dalla piramide di legno come incenso da un turibolo gigantesco. Era dolce ma allo stesso tempo pungente, come il miele di un antico alveare.
Raggiunse la spiaggia e si diresse verso il falò, godendosi il calore delle fiamme che le accarezzava le gambe nude. Non c’era nessuno, chiunque avesse acceso il fuoco se n’era andato, lasciando il suo capolavoro ad ardere nella notte. Non è stata un’ottima idea, pensò Rachel. Se si fosse alzato il vento, avrebbe potuto far volare delle schegge di legno in fiamme tra i cespugli o peggio ancora verso la casa.
Cosa doveva fare?, si chiese. Attendere che il fuoco si spegnesse da solo o tentare di soffocare le fiamme con la sabbia? Scartò subito la seconda ipotesi. Il falò era troppo grande. Quanto ad aspettare lì, be’, sarebbe stata una lunga, lunga attesa.
Forse una volta tanto avrebbe dovuto convincersi che il peggio non sarebbe accaduto.
Sarebbe tornata a dormire. Prima che sorgesse il sole, il fuoco sarebbe stato ridotto a una pozza annerita e fumosa nella sabbia e i suoi timori le sarebbero sembrati ridicoli. Alla prima occasione, avrebbe detto ai surfisti di non accendere falò così grandi nei pressi degli alberi. Quindi si allontanò e si diresse verso casa.
Il profumo la seguì. Era nei suoi vestiti, nei suoi capelli, sulla sua pelle, nella sua bocca addirittura. E, benché potesse sembrare un’assoluta assurdità, più si allontanava più diventava intenso, come se l’aria fresca lo alimentasse. Quando raggiunse la casa, il profumo era talmente forte che sembrava quasi che le stesse fuoriuscendo dai pori della pelle.
Rachel considerò l’idea di farsi una doccia prima di tornare a letto, ma la scartò, persuasa più dal vago senso di ebbrezza indotto dal profumo che dalla stanchezza. Si sentiva le testa leggera, i sensi offuscati (quando allungò la mano per spegnere la lampada sul comodino, mancò l’interruttore di un paio di centimetri, cosa che la divertì molto). Quando alla fine trovò l’interruttore e appoggiò la testa sul cuscino nell’oscurità, dietro le palpebre le balenarono colori sgargianti simili ai riflessi di una bolla di sapone. Quasi ipnotizzata, si domandò se non le fossero rimasti impressi sulla retina quando aveva fissato il fuoco. Pensò che forse non se ne sarebbe più liberata — dei colori, della fragranza — e che sarebbe rimasta per sempre loro prigioniera. Non avrebbe mai più visto il mondo senza quei colori; non avrebbe mai più respirato senza avvertire l’aroma del fuoco.