Riaprì gli occhi solo per assicurarsi che il mondo che aveva lasciato là fuori, oltre le sue palpebre, esistesse ancora. Provava un leggero senso di disorientamento: niente di preoccupante, solo il sospetto che non fosse il caso di prendere troppo sul serio le cose fuori dalla sua testa, quella notte.
La stanza era ancora lì: il chiarore della lampada sul soffitto, la finestra aperta, le tende sospinte dalla brezza; il letto intagliato su cui giaceva; la porta in fondo alla camera che conduceva in corridoio, alle scale…
Il suo sguardo seguì i suoi pensieri fino al pianerottolo immerso nell’oscurità, e quando raggiunse le scale nella sua mente si formò una certezza: non era sola. Qualcuno era entrato in casa. Silenzioso come il fumo e altrettanto innocuo — sicuramente in una notte come quella, nessuno poteva avere cattive intenzioni — qualcuno era entrato in casa ed era in piedi in fondo alle scale.
Quell’idea non la turbò affatto. Si sentiva assurdamente invulnerabile, come se non avesse solo guardato il fuoco sulla spiaggia ma lo avesse attraversato senza procurarsi nemmeno un graffio.
Abbassò lo sguardo sulle scale, sperando di scorgerlo, e intravide una forma vaga laggiù, nell’oscurità: un uomo alto e robusto, dalla pelle nera, pensò Rachel. Lui cominciò a salire le scale. Mentre l’uomo si avvicinava, l’aria sembrò farsi più agitata, come eccitata alla prospettiva di essere respirata da lui. Lo sguardo di Rachel arretrò lungo il pianerottolo e attraverso la camera da letto fino a tornare nella sua testa. Forse avrebbe finto di dormire. Gli avrebbe permesso di svegliarla con una carezza, di posarle una mano sulle labbra, sul seno; o, se lo avesse voluto, di premerle le dita sul ventre; e poi giù, tra le gambe. Gli avrebbe permesso di farlo. Niente di tutto questo era reale, comunque, quindi perché no? Avrebbe potuto farle tutto quello che voleva e a lei non sarebbe successo niente. Non lì, sul suo letto intagliato. C’era solo felicità lì, solo gioia.
Nonostante quei pensieri, c’era ancora un angolo della sua mente controllato dalla cautela.
“Non sei razionale”, le disse. “Il fumo ti ha dato alla testa. Il fumo e quest’isola. Ti hanno confusa.”
Probabilmente era vero, ribatté la Rachel selvaggia che era dentro di lei. E con ciò?
“Ma non sai nemmeno chi sia. E per di più è nero. Non ci sono neri a Dansky, Ohio. E se ce ne sono tu non ne conosci neanche uno. Sono diversi. ”
E anch’io lo sono, ribatté la Rachel selvaggia. Non sono più la persona che ero un tempo, e mi va benissimo così. E anche se quest’isola avesse gettato un incantesimo su di me? Ho bisogno di un po’ di magia. Sono pronta. Oh Signore, sono più che pronta.
Chiuse gli occhi, ancora decisa a fingere di dormire quando lui fosse entrato. Ma non appena percepì i fremiti dell’aria contro il suo viso che annunciavano la presenza dell’uomo sulla soglia della camera, Rachel riaprì le palpebre e gli chiese, a bassa voce, chi fosse.
Lui rispose, pronunciando una sola parola.
“Galilee”, disse.
Due
In quel momento, sulla sommità ammantata dalle nuvole del Monte Waialeale, la pioggia cadeva fittissima, a un ritmo impressionante. In gole troppo inaccessibili perché anima viva potesse raggiungerle, piante che non avevano mai avuto un nome si dissetavano grazie a quel diluvio; insetti che non si sarebbero mai avventurati là dove il piede di un uomo avrebbe potuto schiacciarli cercavano un riparo. Quelli erano luoghi segreti, specie segrete; fenomeni rari su un pianeta dove niente era abbastanza sacro, abbastanza squisito, abbastanza spaventato da essere protetto dall’invasione, dal bisturi, dall’esibizione.
Nel mare scurito dalla notte, le balene nuotavano tra un’isola e l’altra, madri e figli, fianco a fianco, adolescenti giocosi emergevano in superficie avvolti da vesti frenetiche di schiuma come per scrutare un attimo le stelle prima di sparire di nuovo nell’oceano. Nella barriera corallina, sotto di loro, in nicchie e insenature incontaminate quanto le vette del Monte Waialeale, venivano vissute altre vite segrete: le correnti calde trasportavano miriadi di forme minuscole, particelle trasparenti di volontà che nonostante le loro dimensioni insignificanti nutrivano le grandi balene.
E tra le vette e la barriera? Anche là c’era un mistero. Una specie non meno reale dei fiori o del plancton, anche se non apparteneva ad alcuna classe né ad alcuna gerarchia. Quella vita giaceva nella mente umana, nel cuore umano. Si muoveva solo quando era toccata, cosa che accadeva raramente, ma quando accadeva — quando si spostava, si mostrava alla creatura in cui abitava — era come una rivelazione. La prospettiva dell’amore poteva risvegliarla, così come la prospettiva della morte; e, di tanto in tanto, poteva accadere con qualcosa di più semplice: una canzone, un pensiero. Ma ancora di più veniva risvegliata dalla prospettiva della sua stessa apoteosi. Se sentiva avvicinarsi quell’istante, risaliva fino al volto del suo ospite come una luce, e ardeva e ardeva…
“Chiunque tu sia….” disse dolcemente Rachel “… vieni e mostrami il tuo volto. ”
L’uomo entrò nella stanza. Rachel non riusciva ancora a distinguere i lineamenti del suo viso, ma poteva vedere il suo corpo e, come aveva immaginato, era un corpo splendido: alto e robusto.
“Chi sei?” chiese Rachel. Non ottenendo risposta, continuò: “Hai acceso tu il fuoco?”
“Sì.” La sua voce era morbida.
“Il fumo…”
“…ti ha seguita.”
“Sì.”
“Gliel’ho chiesto io.”
“Hai chiesto al fumo di seguirmi?” si stupì Rachel. Per quanto assurdo quel pensiero sembrava avere senso.
“Volevo che ci presentasse”, aggiunse con una traccia di divertimento nella sua voce.
“Perché?” disse lei.
“Perché volevo conoscerti?”
“Sì.”
“Ero curioso”, rispose lui. “E lo eri anche tu.”
“Non sapevo nemmeno che tu fossi qui. Come avrei potuto essere curiosa?”
“Sei uscita a vedere il fuoco”, le rammentò lui.
“Avevo paura…” cominciò lei; ma il resto della frase le sfuggì. Di cosa aveva avuto paura?
“Temevi che il vento potesse trasportare le scintille fino alla casa…”
“Sì…” mormorò lei, ricordando solo vagamente la preoccupazione che aveva provato.
“Non avrei mai permesso che accadesse una cosa simile”, la rassicurò Galilee. “Niolopua non ti ha detto perché?”
“No…”
“Lo farà”, continuò Galilee. Poi, più dolcemente: “Il mio povero Niolopua. Ti piace?”
Rachel rimase a riflettere per un istante; non ci aveva pensato molto a dire il vero. “Sembra molto gentile”, rispose. “Ma non penso che lo sia veramente. Credo provi molta rabbia.”
“Ha le sue buone ragioni”, disse Galilee.
“Tutti odiano i Geary.”
“Tutti facciamo quello che dobbiamo fare”, ribatté lui.
“E Niolopua cosa deve fare, a parte tagliare l’erba?”
“Deve portarmi qui, quando c’è bisogno di me.”
“E come fa?”
“Abbiamo un modo di comunicare che sarebbe difficile da spiegare”, rispose Galilee. “Ma ora sono qui.”
“Bene”, disse lei. “Sei qui. E adesso?”
Quella non era solo una domanda. Anche se la sua lingua era pigra e le sue parole erano lente, Rachel sapeva che lo stava invitando; sapeva qual era la risposta che voleva sentire. Che era venuto per dividere il letto con lei, per sfruttare il suo torpore sognante e fare l’amore con lei. Era venuto per riportarla alla vita con i suoi baci, dopo un’era di spine e dolore.