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Quanto al resto di lui: indossava una T-shirt bianca piena di macchie, dei jeans scoloriti e un paio di sandali. Era alto e imponente; il petto ampio e muscoloso, il ventre piatto, le braccia massicce, le mani forti.

Ma c’era un ultimo dettaglio che non si sarebbe mai aspettata: Galilee era rimasto nell’ombra non per provocarla ma perché non gli piaceva essere guardato. Il linguaggio del suo corpo tradiva il suo disagio; non vedeva l’ora di ritirarsi tra le ombre, ora che l’aveva accontentata, era chiaro. Rachel quasi si aspettava di sentirgli dire posso andare, adesso? Ma lui insistette: “Ti prego, finisci quello che stavi per dire”.

Per la verità si era dimenticata di che cosa stesse parlando; la vista di Galilee con tutta la sua dolcezza contraddittoria — la sua autorità naturale e il suo desiderio di essere invisibile, la sua bellezza e la sua strana ineleganza — aveva scacciato ogni altro pensiero dalla sua mente.

“Stavi dicendo”, le ricordò lui, “che quello che ha lo sconosciuto non è così bello come…”

Rachel rammentò. “Come quello che noi abbiamo laggiù”, disse dolcemente.

“Oh…” replicò lui. “Non potrei essere più d’accordo.” Poi, a voce così bassa che Rachel quasi faticò a udirlo: “Non c’è niente di più perfetto”.

In quel momento, Galilee sollevò appena la testa e la luce della luna trovò i suoi occhi. Erano grandi e riempivano le orbite di intensità, a tal punto che Rachel non riuscì a sostenere il suo sguardo per più di pochi secondi.

“Vuoi che continui con la storia?” le domandò.

“Sì, ti prego”, disse lei.

Come per non metterla ulteriormente a disagio, Galilee distolse lo sguardo, consapevole dell’effetto che poteva avere. “Ti stavo raccontando di quando l’uomo chiese a Jerusha che cosa ne pensasse del suo cazzo.” Quella parola la fece trasalire. “E Jerusha non rispose.”

Ma voleva entrare nel fiume con lui; voleva sapere cosa avrebbe provato sentendo il volto dello sconosciuto vicino al suo, le dita dell’uomo sui suoi seni e sul suo ventre e giù, in mezzo alle gambe.

Lui forse intuì i suoi pensieri perché disse:

“ ‘Mi fai vedere che cos’hai sotto la gonna?’

Jerusha si finse scioccata. No, devo correggermi. Rimase scioccata, anche se non tanto quanto diede a vedere. Devi tenere a mente che quello era un tempo in cui le donne indossavano abiti che le coprivano dal collo alle caviglie. E ora quell’uomo le stava chiedendo — con estrema naturalezza — di mostrargli le sue parti più intime.

“E lei che cosa disse?” domandò Rachel.

In un primo momento niente, ma, come ti ho detto all’inizio del racconto, grazie agli insegnamenti di suo padre, la ragazza non aveva paura di niente. Certo, lui sarebbe rimasto sconvolto se avesse potuto vedere gli effetti che avevano avuto le sue idee e i suoi baci, ma non era là a trattenerla. Jerusha doveva rispondere solo al suo istinto, e il suo istinto le diceva: perché no? Perché non assecondarlo? Così rispose:

“ ‘Mi sdraierò sul prato, dove sarò più comoda. E tu se vorrai potrai venire a vedere’.

“ ‘Non andare tra gli alberi’, le disse.

“ ‘Perché?’

“ ‘Perché ci sono cose velenose là’, rispose lo sconosciuto. ‘Cose che mangiano la carne dei morti.’

Jerusha non gli credette: ‘E io ci vado. Se vuoi venire, accomodati. Se hai paura, resta pure dove sei’. Dopodiché, si alzò e fece per andarsene.

L’uomo la chiamò, le chiese di aspettare. ‘C’è anche un’altra ragione’, disse.

“ ‘E cioè?’

“ ‘Non posso allontanarmi molto dall’acqua. Ogni passo che faccio è pericoloso per me.’

Jerusha scoppiò a rìdere. Pensò che fosse solo una scusa sciocca. ‘Allora sei debole.’

“ ‘No. Io…’

“ ‘Sì, lo sei! Sei debole! Un uomo che non può uscire da un fiume senza lamentarsi? Non ho mai sentito una cosa così ridicola!’

Non attese una sua risposta. A giudicare dall’espressione del suo viso, doveva averlo colpito. Si voltò e si inoltrò tra gli alberi, finché non trovò una piccola radura dove l’erba sembrava morbida e invitante. Si sdraiò sulla schiena, con i piedi in direzione del fiume, di modo che, quando lo sconosciuto l’avesse trovata, la prima cosa che avrebbe visto sarebbe stato ciò che aveva in mezzo atte gambe.

Il fatto che la posizione di Jerusha non fosse poi così dissimile dalla sua, non sfuggì a Rachel.

“A cosa stai pensando?” le chiese Galilee.

“A cosa succederà adesso.”

“Potresti inventare tu il finale”, rispose lui.

“No. Voglio che sia tu a raccontarmelo.”

“La tua versione potrebbe essere migliore. Meno triste.”

“È una storia che finisce male?”

Lui si voltò verso la finestra, e per la prima volta la luce della luna gli illuminò completamente il viso. Rachel non si era sbagliata: sulla fronte di Galilee c’era una cicatrice, una cicatrice profonda che partiva dal sopracciglio sinistro e arrivava fino all’attaccatura dei capelli, e la sua bocca era grande e sensuale. Ma la cosa più straordinaria era il suo viso. Non aveva mai visto, né in una fotografia né in un dipinto né in carne e ossa, lineamenti così squisiti. Era come se la sua carne invece di nascondere il cranio lo esprimesse; come se le sue ossa — che erano state create molto tempo prima del dolore che gli riempiva gli occhi — avessero saputo mentre ancora erano nel grembo materno che presto o tardi quel dolore sarebbe arrivato e si fossero modellate di conseguenza.

“Certo. Deve finire male.”

“Perché?”

“Lasciami finire”, replicò Galilee, abbassando lo sguardo su di lei per un istante. “E se ti dovesse venire in mente una conclusione migliore, ti prego di dirmela.”

E così ricominciò.

Jerusha era sdraiata sull’erba, poco lontano dal fiume. Era certa che lo sconosciuto l’avrebbe raggiunta e voleva essere pronta per lui, così si tolse scarpe e calze e, inarcando il bacino, si liberò delle mutandine. Poi si alzò la gonna fino alle ginocchia. Non aveva nemmeno bisogno di toccarsi per eccitarsi. Una brezza tiepida prese a soffiare proprio mentre la ragazza dischiudeva le gambe e accarezzò come un respiro la sua dolce carne rosea; fili d’erba le sfiorarono l’interno delle cosce. Jerusha cominciò a gemere, incapace di trattenersi. Se in quel momento la sua stessa vita fosse dipesa dal suo silenzio, sarebbe sicuramente morta perché era del tutto rapita.

Poi lo sentì…

“Il dio del fiume”, disse Rachel.

“Allora conosci già questa storia.”

Rachel scoppiò a ridere. “È questo che è lui, vero?”

“Non proprio un dio. Ma qualcosa di simile.”

“Ed è molto antico?”

“Antichissimo.”

“Ma non troppo astuto.”

“Cosa te lo fa pensare?”

“Se fosse furbo resterebbe nel fiume. È quello il suo posto.”

Galilee sospirò. “Non sempre possiamo restare nel luogo a cui apparteniamo. E tu lo sai bene.”

Lei lo fissò in silenzio per alcuni secondi. “Tu sai chi sono”, disse alla fine.

“Sei la mia Jerusha”, rispose lui con immensa dolcezza. “La mia sposa bambina.”

Nell’udire quelle parole, Rachel afferrò le lenzuola che nascondevano la parte inferiore del suo corpo. “Allora penso che tu abbia il diritto di vedermi”, disse, e scostò le lenzuola. Aveva le ginocchia leggermente sollevate; lo spazio tra le sue gambe era in ombra. Ma gli occhi di Galilee indugiarono proprio lì, come se il suo sguardo stesse penetrando l’oscurità, come se potesse vederla chiaramente; penetrando anche lei forse: insinuandosi tra le labbra del suo sesso per scoprire ciò che celavano.