“Mi stavo chiedendo… se mi hai mai amata.”
“Oh, dolcezza”, ribatté Cadmus. “Non è un po’ troppo tardi per certi sentimentalismi?”
Lei se ne andò senza aggiungere altro. Era inutile discutere con lui; evidentemente le medicine gli avevano confuso i pensieri. Avrebbe parlato con Waxman; forse era il caso di diminuire le dosi. Salì al piano superiore e indossò un abito che si era fatta confezionare già da molti mesi ma che non aveva ancora indossato perché non si era mai sentita dell’umore giusto. Era bianco, piuttosto semplice, e quando lo aveva provato la prima volta le era sembrato che la facesse apparire estremamente pallida. Ma ora, osservandosi nello specchio, approvò l’austerità di quel vestito, così come l’aria gelida che le conferiva.
Le aveva dato della puttana, e non era giusto. Certo, si era divertita, e ciò che Cadmus aveva detto riguardo al suo corpo era vero. E con ciò? Aveva fatto del suo meglio con ciò che Dio le aveva dato; si era presa i suoi piaceri dove, quando e con chi aveva potuto. Non c’era nulla di cui vergognarsi. Cadmus era davvero stato fiero in modo perverso della sua reputazione, all’inizio. Gli aveva fatto piacere che il loro corteggiamento fosse stato al centro di tante chiacchiere e tanti pettegolezzi. E sì, lei aveva ceduto alle lusinghe della vanità molte volte rivolgendosi al chirurgo plastico. Ma ancora: e con ciò? Dimostrava dieci anni di meno, quindici sotto la luce giusta. Ma non voleva certo usare la sua bellezza come Cadmus aveva insinuato. Una volta che aveva preso il suo nome, aveva avuto un solo amante oltre a Cadmus e quella relazione era durata a malapena una settimana. Sarebbe stato bello pensare di avergli spezzato il cuore, ma Loretta sapeva di non potersi concedere una simile illusione. Il suo unico amante era stato immune all’amore. Una volta finito con lei, era scomparso all’orizzonte sulla sua barca, lasciandola col cuore straziato.
E uscì così, vestita di bianco, lasciando Cadmus sul divano a guardare il suo amato baseball. Naturalmente, lui non stava guardando la partita. Erano mesi che non ne guardava veramente una. Ma il semplice fatto di sedere lì lo aiutava a distrarsi dai pensieri sulle sue attuali condizioni — dal dolore e dall’umiliazione — e a tornare al passato. C’erano cose che doveva fare prima che la morte venisse a prenderlo per portarlo nello speciale inferno dei ricchi.
Essendo un ateo cattolico, in parte credeva a quell’inferno; in parte era convinto che avrebbe sofferto — se non in eterno almeno per molto, molto tempo — in un luogo arido in cui gli sarebbe stata negata ogni comodità. Il lusso non gli era mai davvero interessato, quindi non avrebbe sentito la mancanza dei pigiami di seta e delle scarpe italiane e delle bottiglie di champagne da mille dollari. Gli sarebbe mancato il potere. Gli sarebbe mancata la certezza di poter raggiungere al telefono qualunque politico, anche il più importante, nel giro di cinque minuti. Gli sarebbe mancata la certezza che ogni parola che mormorava fosse analizzata per capire i suoi desideri. Gli sarebbe mancata l’adulazione. Gli sarebbe mancato l’odio. Gli sarebbe mancato uno scopo. Quello era il vero inferno che lo aspettava: una terra desolata in cui il suo volere non significava niente perché non c’era niente su cui esercitarlo.
Il giorno prima aveva pianto a quella prospettiva. Ma oggi non gli restavano più lacrime. La sua testa era soltanto una lavagna piena di parole sconce che non gli servivano più a niente ora che quella puttana di sua moglie se n’era andata. Andata a farsi scopare, senz’altro; andata a farsi sbattere come una troia qualunque…
Si rese conto solo vagamente che stava pronunciando ad alta voce quelle parole; che stava dicendo sconcezze tra sé e sé, seduto sui suoi stessi escrementi. E nella sua testa quel monologo era accompagnato da molte immagini; troppo nebulose per poter dire se fossero erotiche o meno.
In mezzo a tutta quella confusione, c’erano altre faccende di cui avrebbe dovuto occuparsi. Affari non conclusi, persone a cui dire addio. Ma non riusciva a concentrarsi abbastanza nemmeno per elencarli; le oscenità continuavano a distrarlo.
A un certo punto, entrò l’infermiera che gli chiese come si sentisse. Dovette fare appello a tutta la forza di volontà per non ricoprirla di insulti e, usando quel poco che restava del suo autocontrollo, le ordinò di andarsene. Lei gli disse che sarebbe tornata di lì a dieci minuti con le sue medicine, poi se ne andò.
Mentre ascoltava i passi della donna che si allontanavano lungo il corridoio, nella sua testa cominciò a risuonare un ronzio. Sembrava provenire dalla parte posteriore del suo cranio; un piccolo rumore irritante che stava crescendo di intensità. Cercò di scrollarselo di dosso — come un cane con una pulce nell’orecchio — ma il ronzio non lo abbandonò. Divenne più forte, più stridulo. Cadmus afferrò il bracciolo del divano come per alzarsi. Aveva bisogno di aiuto. Avere la testa piena di sconcezze era una cosa, ma quello era un affronto troppo vile perché lo potesse sopportare. Si alzò in piedi ma le sue gambe non erano in grado di sostenerlo. La mano gli scivolò dal bracciolo, e si accasciò a terra. Cadendo, emise un grido ma non udì alcun suono. Ormai il lamento era così fragoroso da soffocare tutto il resto: lo scricchiolio delle sue vecchie ossa, il rumore della lampada da tavolo che si infrangeva sul pavimento.
Per qualche istante, perse conoscenza e in un mondo più pietoso di questo avrebbe anche potuto non riacquistarla più. Ma il destino non aveva ancora finito con lui. Dopo un meraviglioso intervallo di oscurità, Cadmus aprì gli occhi. Era riverso a terra, su un fianco, e il lamento era talmente fragoroso che era certo che gli avrebbe fatto esplodere il cranio.
Ma no; non gli fu concesso nemmeno quel lusso doloroso. Rimase lì, vivo e sconfìtto, finché qualcuno non lo trovò.
I suoi pensieri — ammesso che si potessero ancora definire pensieri — erano caotici. C’erano ancora frammenti di oscenità, qua e là, ma non erano più vere parole. Erano solo sillabe che rimbalzavano contro le pareti della sua testa, seguendo il ritmo di un lamento incessante.
Quando Celeste rientrò nella stanza, si dimostrò un vero e proprio modello di efficienza. Liberò la gola del paziente da alcuni resti di vomito, si accertò che riuscisse a respirare e poi chiamò l’ambulanza. Fatto questo, tornò in corridoio, avvertì un membro della servitù e gli disse di trovare Loretta e di farla andare al Mount Sinai, dove sarebbe stato portato Cadmus. Quando tornò dal vecchio, scoprì che aveva aperto gli occhi, solo due fessure, e che aveva voltato la testa verso la porta.
“Riesce a sentirmi, signor Geary?” gli chiese dolcemente.
Lui non rispose ma i suoi occhi si aprirono ancora un po’. Celeste si rese conto che stava cercando di mettere a fuoco qualcosa, per la precisione il dipinto appeso alla parete più lontana della sala. L’infermiera non sapeva nulla di arte ma quel quadro gigantesco aveva finito per esercitare un grande fascino anche su di lei, a tal punto che aveva chiesto a Cadmus di parlargliene. Lui le aveva spiegato che era di un artista di nome Albert Bierstadt e che rappresentava la sua idea degli spazi sconfinati d’America. Guardarlo, aveva detto Cadmus, avrebbe dovuto essere una specie di viaggio: l’occhio che si spostava da una parte all’altra del panorama scopriva sempre qualche nuovo dettaglio. Le aveva mostrato come guardarlo attraverso un foglio di carta arrotolato, come osservando la scena con un binocolo. Sulla sinistra, c’erano una cascata e un piccolo specchio d’acqua al quale si stavano abbeverando alcuni bisonti; dietro gli animali, si allargava un’immensa pianura e in lontananza si potevano scorgere le cime di montagne innevate che si stagliavano contro un cielo blu profondo. La sola figura umana del dipinto era un pioniere solitario a cavallo, fermo sull’orlo di un precipizio sulla destra del quadro, intento a scrutare le terre che si estendevano davanti a lui.