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“Mi ha mandato tuo padre”, aveva detto.

L’espressione confusa aveva abbandonato il suo volto, e George si era fatto stranamente sereno nel sentire che stava morendo per volere del suo stesso padre; quasi che quello fosse stato un ultimo perverso compito che doveva assolvere prima di potersi sottrarre per sempre al controllo di Cadmus.

Qualunque fantasia di paternità Galilee potesse aver avuto, era svanito in quel momento: essere la mano del padre che assassinava il figlio aveva ucciso ogni suo desiderio. Non solo quello di paternità — anche se quel desiderio era stata la vittima più triste di quella notte a Smith Point Beach, in quel preciso istante il desiderio stesso di vivere aveva perso tutte le sue attrattive. Distruggere un uomo per arrivare al potere era una cosa (tutti i re lo avevano fatto, presto o tardi); ma condannare a morte il proprio figlio perché si era rimasti delusi da lui, quella era tutta un’altra cosa, ed essere stato costretto a eseguire la sentenza aveva spezzato il cuore di Galilee.

E, anche dopo tanti anni, non riusciva a dimenticare quella scena. Il bordello di Chicago e il cane giallo sul pianerottolo erano ricordi già abbastanza terribili; ma non erano niente in confronto al ricordo dell’espressione di George Geary in quella notte di pioggia.

Continuò così per più di una settimana: ricordi di giorno e sogni di notte, e nessun’altra scelta se non quella di sopportarli. La sera, si avventurava fuori casa e scendeva al molo a controllare la Samarcanda, ma anche quel breve tragitto diventò sempre più faticoso col passare del tempo. Galilee era così esausto.

Non poteva andare avanti in quel modo. Era arrivato il momento di prendere una decisione. Non c’era alcun eroismo nella sofferenza a meno che non avesse uno scopo. Ma lui non aveva mai avuto uno scopo; niente per cui vivere, niente per cui morire. Non aveva mai avuto altro che se stesso.

No, non era vero. Se avesse avuto soltanto se stesso, non avrebbe provato quel tormento.

Era stata lei a renderlo così. Quella Geary; quella maledetta, dolcissima Geary che lui avrebbe voluto disperatamente cacciare dal suo cuore. Ma non poteva. Era stata lei a ricordargli che era ancora capace di provare dei sentimenti e così facendo lo aveva aperto, come se avesse impugnato un coltello, permettendo anche a quei terribili ricordi di raggiungere il suo cuore. Era stata lei a ricordargli la sua umanità e tutto ciò che aveva fatto ignorando la sua parte migliore. Era stata lei a risvegliare in lui la voce dell’uomo morente sul pavimento del bordello, il cane giallo e la vista di George Geary. Lei, la sua Rachel. La sua bellissima Rachel, che era con lui giorno e notte, che gli teneva la mano, che gli toccava il braccio, che gli ripeteva che lo amava.

Accidenti a lei! Non c’era niente per cui valesse la pena soffrire così. Non si sentiva più al sicuro nemmeno nella sua stessa pelle. In qualche modo, lei lo aveva invaso, lo aveva posseduto. La mancanza di sonno lo rendeva sempre più irrazionale. Cominciò a sentire la voce di Rachel che lo chiamava, come se fosse stata nella stanza accanto. Per ben due volte andò in sala da pranzo e trovò il tavolo apparecchiato per due.

Non ci sarebbe stato alcun lieto fine, lo sapeva. Non sarebbe riuscito a sfuggirle, per quanto pazientemente potesse aspettare. Rachel aveva una stretta troppo salda sulla sua anima.

Aveva l’impressione di essere invecchiato all’improvviso — quasi che i decenni in cui il tempo lo aveva lasciato intatto di colpo lo avessero raggiunto — e di non avere altra prospettiva che un lento declino, un’inevitabile discesa verso la follia ossessiva. Sarebbe diventato il pazzo della collina, segregato in un mondo di visioni in decomposizione; l’avrebbe vista, l’avrebbe sentita, sarebbe stato torturato giorno e notte dai ricordi spaventosi che erano riemersi con l’amore: la consapevolezza delle sue crudeltà, delle sue innumerevoli crudeltà.

Meglio morire, pensò. Sarebbe stato un atto di compassione verso se stesso, anche se probabilmente non meritava nemmeno la compassione.

La sera del sesto giorno, risalendo lungo la collina, mise a punto il suo piano. Aveva conosciuto diversi suicidi in vita sua e nessuno di loro aveva fatto un buon lavoro. Avevano lasciato il mondo senza dignità, mentre lui voleva andarsene nel modo più sommesso possibile.

Quella notte accese tutti i camini della casa e bruciò tutto ciò che avrebbe potuto ricondurre a lui. I pochi libri che aveva conservato nel corso degli anni, cianfrusaglie, figure che aveva intagliato nel legno per passare il tempo (niente di straordinario, ma chi poteva sapere come sarebbero state interpretate se qualcuno le avesse rinvenute?). Non c’era molto da distruggere, ma Galilee era così stanco e così confuso che ci volle comunque un po’ di tempo.

Quando ebbe finito, aprì tutte le porte e tutte le finestre, e poco prima dell’alba scese dalla collina e si diresse al porto. I suoi vicini avrebbero capito, vedendo la casa aperta in quel modo. Di lì a un paio di giorni, qualche anima coraggiosa si sarebbe avventurata all’interno e ben presto si sarebbe sparsa la voce della sua partenza definitiva. La casa sarebbe stata spogliata di tutto ciò che ancora conteneva di utile. O almeno così sperava lui. Meglio che qualcuno usasse le sedie e i tavoli e gli orologi e le lampade, meglio non consegnare ogni cosa alla putrefazione.

Soffiava un vento forte. Le vele della Samarcanda si gonfiarono subito; e molto prima che gli abitanti di Puerto Bueno si svegliassero e si preparassero il caffè del mattino o il whisky del pomeriggio, il loro misterioso vicino era scomparso.

Il suo piano era molto semplice. Avrebbe portato la Samarcanda il più lontano possibile dalla terraferma e poi — una volta sicuro che né il vento né la corrente potessero riportarlo indietro -avrebbe rinunciato al controllo sia sul suo corpo sia sulla sua barca, e avrebbe lasciato che la natura facesse il suo corso. Non avrebbe ripiegato le vele se si fosse abbattuta una tempesta. Non avrebbe manovrato il timone per evitare gli scogli o la barriera corallina. Avrebbe semplicemente permesso al mare di prenderlo quando e in qualunque modo avesse voluto. Se avesse scelto di rovesciare la Samarcanda e annegarlo, lo avrebbe accettato. Se avesse deciso di mandare in pezzi la barca e il suo capitano, non avrebbe avuto nulla da obiettare. E se avesse preferito essere passivo quanto lui e lasciarlo ad avvizzire a poco a poco sul ponte, non si sarebbe opposto.

Temeva una sola eventualità: se avesse cominciato a delirare per la fame e la sete, avrebbe potuto perdere la fermezza che ora lo muoveva e, in un momento di debolezza, tentare di riprendere il controllo della Samarcanda. Così spogliò la barca di tutto ciò che avrebbe potuto essergli di qualche utilità, gettando in mare le carte nautiche, il giubbotto salvagente, il compasso, i razzi di segnalazione, il canotto gonfiabile: tutto. Si concesse solo qualche lusso per rendere più dolci quei suoi ultimi giorni, pensando che il suicidio non dovesse per forza essere un’attività priva di raffinatezze. Tenne i sigari, il brandy e un paio di libri. Fatto questo, si preparò a consegnare il suo destino alla marea.

Tre

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Gli omicidi, per la maggior parte, vengono commessi all’interno della famiglia. Le convenzioni della narrativa popolare raccontano una verità inesistente: la persona che più probabilmente vi toglierà la vita con la violenza non è un maniaco senza volto ma l’uomo o la donna con cui avete fatto colazione stamattina. Quindi non credo di rivelare qualcosa di sconvolgente se vi dico che a uccidere Margie era stato proprio Garrison Geary.

Non lo aveva fatto spinto dal disprezzo che comunque provava per lei. Non lo aveva fatto perché lei aveva un amante. Lo aveva fatto perché lei gli aveva negato la conoscenza, e se questo vi sembra un motivo futile per commettere un omicidio, vi assicuro che tra non molto vi sembrerà una stranezza di poco conto, in confronto al resto.